Parlamento in seduta comune: vantaggi ma anche rischi

Per quanto evidente, a tutti è sfuggito un effetto della recente riduzione del numero dei parlamentari, e cioè che il Parlamento in seduta comune, in futuro composto da 600 parlamentari elettivi anziché 945, potrà molto più facilmente riunirsi nell’Aula della Camera. Ciò costituisce uno dei motivi per cui si sta cominciando a ragionare sull’ampliamento delle sue attribuzioni costituzionali.  Va in questo senso la recente proposta di riforma costituzionale presentata lo scorso 2 ottobre al Senato dal Partito democratico. Suo obiettivo è fare di questa terza camera, finora dalle limitate attribuzioni per lo più elettorali (a cominciare dall’elezione del Presidente della Repubblica), “la sede unitaria di definizione dell’indirizzo politico nazionale”.

Essa infatti, sarebbe chiamata a prendere le decisioni più importanti: voto di fiducia (a maggioranza semplice) e di sfiducia (costruttiva e a maggioranza assoluta) al Governo; approvazione della legge di bilancio e autorizzazione al c.d. scostamento di bilancio; approvazione della leggi di autorizzazione alla ratifica dei trattati internazionali: audizione delle comunicazioni che il Presidente del Consiglio deve svolgere prima (con eventuale formulazione di indirizzi) e dopo i Consigli europei; infine, conversione dei decreti legge.

In attesa di ulteriori approfondimenti, tale proposta di riforma si presta fin d’ora ad un paio di brevi considerazioni
In primo luogo, l’ampliamento delle attribuzioni costituzionali del Parlamento in seduta comune si colloca nella prospettiva del superamento del nostro bicameralismo paritario. La novità sta nel fatto che tale tendenza si traduce nella concentrazione dei poteri di indirizzo politico non, come finora proposto, nella Camera dei deputati, con conseguente trasformazione del Senato in camera “non politica”, ma nel Parlamento in seduta comune, composto da membri eletti allo stesso modo (da qui la proposta di far eleggere i senatori dai diciottenni in circoscrizioni non più regionali).

In secondo luogo l’accentramento del potere fiduciario nel Parlamento in seduta comune dovrebbe garantire, nelle intenzioni dei proponenti, “una più sicura stabilità al Governo”. In questo senso, come detto, vanno: l’attribuzione al presidente del Consiglio del potere di proporre al presidente della Repubblica non solo la nomina ma anche la revoca dei ministri; l’introduzione della sfiducia costruttiva e la sua approvazione da parte ora delle camere riunite a maggioranza più elevata (assoluta) rispetto a quella (semplice) richiesta in sede di fiducia, con ulteriore rafforzamento della possibilità – già com’è noto vigente – di governi di minoranza.

Ma l’obiettivo di rafforzare in tal modo la stabilità di governo sembra, per così dire, fuori portata per la semplice, ma decisiva considerazione che, tranne le crisi parlamentari del governo Prodi (1998 e 2008) e quella semiparlamentare del governo Conte I (dimessosi il 20 agosto 2019 a seguito della mozione di sfiducia, poi ritirata, della Lega per Salvini), tutte le crisi di governo sono state extraparlamentari, cioè insorte a seguito di dissociazioni di parte della maggioranza di governo, con conseguenti dimissioni spontanee del presidente del Consiglio. Sotto questo profilo dunque le disposizioni costituzionali proposte possono solo costituire un deterrente ragionevole alle crisi parlamentari, ma non a quelle extraparlamentari.

Invero, l’obiezione è ben presente agli autori del progetto i quali prevedono l’obbligatoria parlamentarizzazione delle crisi generate dalle dimissioni volontarie del presidente del Consiglio il quale, prima di rassegnarle al presidente della Repubblica, sarebbe obbligato a comunicarne le motivazioni al Parlamento in seduta comune. La parlamentarizzazione della crisi risponde senz’altro all’esigenza di renderne pubbliche le motivazioni. Di contro è pur vero che talora questo pubblico passaggio parlamentare è stato evitato proprio per non acuire i motivi di contrasto tra le forze politiche di maggioranza in misura tale da rendere ancor più difficoltoso il compito del Presidente della Repubblica di nomina del nuovo esecutivo. Insomma, la parlamentarizzazione della crisi può risolversi in una forma di “accanimento terapeutico” inutile e anzi dannoso ai fini della prosecuzione della legislatura.

Tirando le somme, il progetto di riforma del Partito democratico va senz’altro nella condivisibile direzione di superare il bicameralismo paritario, concentrando le funzioni d’indirizzo politico non nella Camera dei deputati ma nel Parlamento in seduta comune. La coesistenza di tale terzo organo con le altre due camere pone però problemi di reciproco coordinamento che sono ovviamente non solo tecnici ma politici e che per questo potrebbero aggravare, anziché semplificare, il funzionamento delle nostre istituzioni di governo.