Le operazioni dell’Idf a Gaza City hanno preso il via: in poche ore le Forze israeliane hanno ottenuto il controllo della periferia. Il 7 ottobre ha segnato un punto di non ritorno per il futuro dell’intera area. La domanda che prima o poi ci dovremo porre, e che forse dovrà essere anche parte dell’accordo definitivo, è: quale potrà essere il miglior futuro per i gazawi nella prospettiva di una ricostruzione della striscia “Hamas-free”, con il superamento dello stato di semi-schiavitù a loro imposto dal sistema del terrorismo internazionale?

La sfida non può che essere affrontata con il contributo degli Stati più coinvolti e che dispongono anche di maggiori risorse, a iniziare da quelli arabi e dagli Usa, e fa riemergere, paradossalmente, anche la provocazione lanciata qualche mese fa da Trump. Quindi la questione è se Gaza dovrà essere ricostruita com’era o, più realisticamente, dovrà essere reinventata. Conferendo al territorio, prima degradato e sottosviluppato e oggi distrutto, un’identità mai avuta e sostanzialmente priva di un’impronta storica. Il processo di rinascita di aree devastate dai conflitti è stato ampiamente studiato fin dalla Seconda guerra mondiale: basta leggere le tante pubblicazioni redatte e pubblicate sin da allora dalle istituzioni internazionali, a partire dalla Banca Mondiale. E, a tale scopo, al lettore può risultare utile quanto riassunto nelle “Lessons learned from World Bank experience in post-conflict reconstruction”, che identificano le sfide e le buone pratiche che articolano la ricostruzione in fasi.

La prima è quella dell’emergenza e dell’assistenza umanitaria: fornitura di cibo, acqua, medicine e dimore temporanee. Con l’immediato ripristino di un senso di normalità e la riattivazione dei servizi essenziali come acqua ed elettricità, ma anche scuole e ospedali. Tutte azioni che potranno essere avviate contemporaneamente al nuovo modello di assetto istituzionale Hamas-free. A seguire, la non semplice “early recovery”, ovvero una ripresa della vita civile ed economica, con il coinvolgimento della popolazione locale, che potrà essere impiegata in programmi di lavoro a breve termine del tipo “cash-for-work”. Altra questione riguarderà la rimozione delle macerie. Operazione gigantesca, che dovrà essere accompagnata dalla valutazione dei danni e dalla pianificazione della ricostruzione a lungo termine. Quest’ultima fase durerà il tempo scandito dalla disponibilità dei flussi finanziari, consentendo di ricostruire, o meglio costruire – considerata l’attuale indicibile qualità – case, scuole, ospedali e infrastrutture.

Il successo dipenderà però da alcuni fattori cruciali: una governance stabile e la libertà di movimento per persone, merci e capitali, valorizzando le scarse risorse locali ma anche e principalmente creandone di nuove. Contando sulla posizione geografica strategica e su una grande disponibilità di forza lavoro, che dovrà essere opportunamente formata. Ed è proprio per questo che un possibile modello di transizione potrebbe essere quello già adottato da altri Paesi arabi. Un modello di rinascita per Gaza e, forse per il nuovo Stato della Palestina, basato su un’economia evoluta e stabile, fatta di mercato e non di sussidi, dove turismo e real estate possono assumere un ruolo centrale e fare da traino anche ad altri settori, dall’agricoltura all’economia del mare, dalla logistica alla pesca.

Ovviamente un ruolo fondamentale sarà quello dei Paesi arabi, che già nel Patto di Abramo si erano resi disponibili a un impegno in tal senso. Paesi, peraltro, che negli ultimi decenni hanno consolidato, con successo, un nuovo modello di sviluppo. Prima gli Emirati Arabi Uniti, il Qatar e l’Oman, e oggi, in modo molto più incisivo, anche l’Arabia Saudita, negli ultimi decenni hanno dimostrato di saper creare nuove economie di stampo liberista, basate sulla valorizzazione delle proprie culture e su nuove basi tecnologiche, a iniziare dalle produzioni energetiche e idriche. Generando una forte attrattività nei confronti dei capitali finanziari internazionali e della domanda turistica, non solo del lusso, ma addirittura culturale. Basti pensare agli enormi investimenti archeologici e museali, a iniziare dal Louvre di Abu Dhabi.

Insomma, la ricostruzione di Gaza potrebbe essere qualcosa di molto vicino a quanto evocato provocatoriamente da Trump. Ma di certo la priorità sarà quella di dare ai gazawi una prospettiva di stabilità e sviluppo socio-economico, considerato che il PIL procapite ante-conflitto si attestava a circa 1.200 dollari l’anno e la disoccupazione giovanile era di oltre il 60%. La sfida è titanica. L’entità della distruzione e la crisi umanitaria rendono tutto più complicato. Ma il problema più grande rimane il nodo politico-militare: senza la sconfitta di Hamas, nulla sarà possibile. E un migliore futuro per i gazawi resterà una chimera.