Pavese, tra le pagine più belle della letteratura

Non si può bruciare una candela dalle due parti”, scrive Cesare Pavese in una commovente, a tratti straziante lettera risalente all’agosto del 1950. Di lì a poco si sarebbe tolto la vita. Epitaffio e dolente commiato dal mondo, l’ultimo appunto vergato su quello che sarebbe divenuto ‘Il mestiere di vivere’, uno zibaldone di poetica disperazione, di smarrimento e di potenza espressiva, un turbinio di vita, sofferenza, amore interrotto: “Tutto questo fa schifo. Non parole. Un gesto. Non scriverò più”.
Quel negarsi alla scrittura, al campo bianco, di neve e dolore, di vita e morte, di luce e oscurità, che è l’atto della creazione, significava per lui che per i suoi quarantadue anni di vita si era dato, spassionatamente, ad intessere fili inestricabili di arte e conoscenza, scomparire. Disfarsi dal mondo, come una coperta per lungo tempo stesa al sole, un sole che non scalda, e rintanarsi nella cavità ombrosa di un permanente silenzio. La candela, sempre più fioca, sempre più smangiucchiata, si era consumata. E il biglietto di perdono, agli altri e dagli altri, inciso direttamente tra le pagine di una copia di ‘Dialoghi con Leucò’ che teneva su un tavolino, nella stanza d’albergo a Torino che aveva occupato dal giorno precedente la scelta del sonno eterno.

È di pochi scrittori la capacità di aderire in modo totale, pieno, rigoglioso, al proprio inchiostro. Nel caso di Pavese è difficile poter tracciare una linea di demarcazione tra l’uomo e l’intellettuale, tra il geniale traduttore che si immergeva in interminabili discussioni sul senso dello slang americano coi suoi corrispondenti per comprenderne il senso sociale e culturale, e il ragazzo più volte ferito e immalinconito da relazioni d’amore che finivano, inevitabilmente, lungo sentieri oscuri di irresolutezza.

A Pavese si devono alcune tra le pagine più belle, intense e struggenti della letteratura italiana, e la messa a fuoco, nel suo ardere, della tragedia della guerra. “Ogni guerra è una guerra civile: ogni caduto somiglia a chi resta, e gliene chiede ragione”, scrive ne “La casa in collina”. L’impegno politico è sovente contraddittorio e schiacciante, si iscrive al Partito Comunista alla fine della guerra, come forma rituale di espiazione per il non aver combattuto in montagna – il peso degli amici morti, saltati su mine, impiccati, falciati dai mitra, lo perseguiterà a lungo. E però del pari quella scelta politica sarà a sua volta condanna, quando le sue posizioni letterarie e filosofiche, di impronta vichiana queste, pur filtrate da un senso personalissimo, lo porteranno ad essere guardato con profondo sospetto dalla sinistra.

A Cesare Pavese si deve, assieme ad Ernesto de Martino, un florilegio di nuovi studi psicologici, antropologici e di storia della religione, sarà infatti lui a far conoscere il pensiero di Frobenius, Malinowski, Propp, dello Jung studioso di archetipi mitici e religiosi. Tra il 1947 e il 1950, scrive e pubblica i suoi maggiori capolavori, “La casa in collina”, “Il diavolo in collina”, “Il compagno”, “Prima che il gallo canti”, che gli varrà l’apprezzamento di Emilio Cecchi, e poi “Dialoghi con Leucò” e, l’ultimo, “La luna e i falò”, che uscirà nella primavera del 1950, a chiusura del suo ciclo letterario ed esistenziale. “La luna e i falò”, in particolare, è la perfetta rappresentazione di una simbiosi assoluta tra l’atto di creazione e la sofferenza del vivere, non una mera biografia, ma una mimesi tra la ricerca di uno spazio grande, la vita fuori dalle mura delle proprie radici, e la necessità del ritorno, la propria terra come famiglia. “Un paese vuol dire non essere mai soli, sapere che nella gente, nelle piante, nella terra c’è qualcosa di tuo che anche quando non ci sei resta ad aspettarti”. L’appartenenza, impenetrabile, turrita, che scorre sui tetti e sotto il cielo rosso al tramonto, tra le vallate piemontesi, nella dolente accettazione di frammenti di impossibile gioia – e questi libri, queste considerazioni, sono ora la cenere da cui germoglia il fiore di Cesare Pavese.