L'appello per una svolta
Per costruire il futuro dell’Italia è necessario avere strumenti e forze di reazione
Nel 1882 alla John Hopkins University alcuni ricercatori osservarono nel corso di un esperimento che, se si butta una rana in una pentola bollente, questa salta fuori per salvarsi. Se si mette una rana in una pentola con acqua fredda e poi si riscalda progressivamente l’acqua fino a ebollizione, invece, la rana non si mette in salvo e finisce bollita. Sembra che questo esperimento, di cui non conosco la validità scientifica generale, abbia ispirato al filosofo americano Noam Chomsky la sua famosa metafora della “rana bollita” così da lui esposta (Media e Potere, edizione Bepress, 2014): «Immaginate un pentolone pieno d’acqua fredda nel quale nuota tranquillamente una rana. Il fuoco è acceso sotto la pentola, l’acqua si riscalda pian piano. Presto diventa tiepida. La rana la trova piuttosto gradevole e continua a nuotare. La temperatura sale.
Adesso l’acqua è calda. Un po’ più di quanto la rana non apprezzi. Si stanca un po’, tuttavia non si spaventa. L’acqua adesso è davvero troppo calda. La rana la trova molto sgradevole, ma si è indebolita, non ha la forza di reagire. Allora sopporta e non fa nulla. Intanto la temperatura sale ancora, fino al momento in cui la rana finisce – semplicemente – morta bollita. Se la stessa rana fosse stata immersa direttamente nell’acqua a 50 gradi avrebbe dato un forte colpo di zampa, sarebbe balzata subito fuori dal pentolone». La metafora serviva al filosofo Chomsky per denunciare le tecniche di manipolazione utilizzate dal potere per controllare la società, ma ha un significato più vasto e serve, forse, anche a spiegare le possibili conseguenze cumulative di un progressivo degrado economico e istituzionale a cui non si opponga resistenza in tempo, con il rischio di trovarsi, alla fine, troppo deboli e privi degli strumenti di reazione. La metafora di Chomsky è di stringente attualità ed è cruciale per l’azione riformista anche in campo economico, cioè per elaborare una strategia di politica economica, il cui disegno e la cui attuazione non possono prescindere dalla capacità delle istituzioni di assolvere al loro compito.
Partiamo dall’attività legislativa. Non è di oggi l’abuso del ricorso alla legislazione di urgenza che sposta l’attività legislativa dal Parlamento al Governo con l’uso esteso di decreti legge, spesso dal contenuto non omogeneo, poi approvati ponendo la fiducia. Non è di oggi l’inizio di questo abuso, ma vi è stato un crescendo impressionante negli ultimi anni e una sua esplosione nel corso della decretazione d’urgenza connessa alla pandemia. Nelle attuali contingenze della urgenza e drammaticità della situazione, questo progressivo slittamento fa sì che il Governo si possa sentire tecnicamente in grado di agire quasi senza vincoli con un Parlamento non messo in grado di esercitare il suo ruolo. Ciò indebolisce la sostanza della democrazia rappresentativa senza aumentare l’efficacia dell’azione di governo. Non sembra, infatti, esserci un trade-off tra i due valori in questione, anche perché questo fenomeno è correlato, e intrinsecamente legato da nessi di causalità, ad altri elementi di progressivo degrado.
Ci siamo, infatti, progressivamente abituati a considerare scarsamente correlate le decisioni normative con la loro attuazione. Sia perché il numero di norme secondarie necessarie all’attuazione sono costantemente aumentate, a volte per la cattiva qualità o vaghezza delle norme primarie, sia perché le norme approvate spesso non tengono conto della loro applicabilità concreta in relazione agli strumenti organizzativi della amministrazione pubblica chiamata ad attuarle o alle condizioni concrete dei soggetti privati sui quali esse dovrebbero incidere. Anche questo non è un fenomeno nuovo, ma si è oggi acuito e sta conducendo sempre più frequentemente a situazioni di paralisi per la difficoltà di conciliare la macchina organizzativa della pubblica amministrazione con i compiti a essa assegnati dall’abbondante, e a volte non coordinata, produzione normativa.
Penso che non ci sia dubbio che il rilancio degli investimenti pubblici sia considerato oggi la misura essenziale per il futuro dell’economia italiana e per la sua ripresa a breve, ma da tempo ci siamo abituati a considerare come normale che non si riescano a fare. E anche su questo fronte l’acqua diventa sempre più calda. Si considera normale che anno dopo anno sia riproposto il problema, vengano varati decreti sempre d’urgenza e poi ogni azione efficace di riforma risulti assente. Abbiamo assistito al lento e progressivo “alleggerimento” di competenze tecniche delle strutture ministeriali dello Stato – a cui dobbiamo anche la caduta degli investimenti pubblici e dei controlli su quelli privati – e ci ritroviamo a non avere oggi un attore istituzionale chiaro in grado di disegnare e guidare la programmazione economica, nel momento in cui è essenziale, e assistiamo al contrario a estemporanei tentativi di formare allo scopo task-force o commissari extra-istituzionali, che non possono essere sostitutivi dello Stato, al massimo funzionali al gioco delle responsabilità. In un momento storico in cui il ruolo dello Stato nell’economia dev’essere rafforzato, ci troviamo senza lo Stato e soprattutto senza il “senso dello Stato e delle istituzioni”.
Non è solo importante in che misura e dove lo Stato deve intervenire, ma è anche importante come e con quali strumenti. Non è in discussione la legittima scelta politica di maggiore o minore ruolo pubblico nell’economia, scelta che spetta alla maggioranza politica democraticamente eletta, anche se alcune scelte di fondo sarebbe utile che godano di una più ampia condivisione. Ci si può ispirare a questo scopo a Keynes o in alternativa a Colbert, ma vorremmo escludere che si guardi a Chavez. L’importante è che non si rafforzi, ma al contrario venga contrastata, la percezione che mi è stata espressa nel corso della mia esperienza governativa sia da investitori internazionali sia da colleghi di altri governi: l’Italia potrebbe essere un paradiso di opportunità per gli investitori se non ci fosse il “rischio legale”. Descrivendo in tal modo non solo l’inefficienza della giustizia e la sua lentezza, ma l’imprevedibilità di un sistema in cui il passaggio dal diritto amministrativo a quello civile e a quello penale è molto facile, a volte quasi discrezionale.
Basti rileggere la storia del disastro dell’Ilva. Ciò che fa paura è l’incertezza del diritto e la variabilità normativa, spesso ad hoc, che fa sì che l’impegno anche contrattuale preso da un governo non sia necessariamente considerato valido dal successivo. Questo è quello che si teme sostanzialmente nel mondo e in Europa, ed è per questo che, accanto alla ovvia condizione che per finanziare progetti ci devono essere i progetti, essa chiede oggi, come da molti anni, riforme, a partire da quella della giustizia, il fantasma che si aggira in tutti i governi. Questo sembra un articolo di denuncia e pessimista. Non lo è, anzi è destinato alla costruzione e non alla distruzione, perché è un invito, in ogni occasione e su tutto, a non considerare normale, o “prassi” accettabile, quel che normale non è e che non è solo una prassi ereditata dal passato.
Al contrario, la temperatura dell’acqua è aumentata troppo e prima di finire tutti bolliti, con forze istituzionali e organizzative troppo indebolite per uscire dalla pentola, è necessario raccogliere le forze, uscirne subito e spegnere il fuoco. Il lavoro non è teorico, ma di azione concreta e meticolosa senza più compromessi. Per costruire il futuro dell’Italia è necessario avere strumenti e forze di reazione, ancora ci sono.
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