Sempre più spesso il dibattito pubblico assume toni a dir poco surreali. Sono giorni ormai che assistiamo alle fibrillazioni della politica per una legge (peraltro fatta dal Parlamento) che ha introdotto la sottoscrizione digitale delle iniziative popolari (referendum e proposte di legge promosse dai cittadini), mentre praticamente nessun dibattito si è acceso di fronte alla notizia della richiesta di reclusione di tre anni e quattro mesi, insieme a una pena pecuniaria, per il direttore Feltri, imputato (insieme al giornalista Senaldi) per diffamazione a mezzo stampa a causa del titolo di un articolo che certamente, ma questa è la mia modesta opinione (estetica più che giuridica), il suo giornale avrebbe potuto evitare.
Ancora più surreale la situazione perché i due fatti sono legati da un’intima connessione. Lo scalpore per le firme digitali e il fantasma di valanghe referendarie, infatti, ha espunto dal dibattito un punto fondamentale. I referendum in Italia sono abrogativi, il che vuol dire che la legislazione rimane comunque primariamente nella disponibilità del Parlamento. È il Parlamento che fa le leggi, il popolo può solo abrogarle. E il Parlamento può farle anche ad iniziativa referendaria avviata. Il problema è che il Parlamento le leggi, soprattutto certe leggi, non le fa. Si sottrae, cincischia, insabbia, anche quando magari quelle leggi sono richieste, non dal popolo, ma dalla Corte costituzionale che negli anni si è “sgolata” per chiedere che, in certi settori in cui era stato richiesto il suo intervento, anche il Parlamento facesse la sua parte. Soprattutto in materie complesse in cui la mannaia della dichiarazione di incostituzionalità o la varietà di soluzioni possibili a seguito di una sentenza di annullamento non consentivano al giudice delle leggi di intervenire adeguatamente.
Ma in genere non è successo nulla. Il Parlamento ha fatto orecchie da mercante e, talvolta, la Corte è dovuta intervenire nuovamente a metterci una pezza. E qui entra in gioco la vicenda Feltri. Perché in essa si ripropone il copione appena descritto su un tema delicatissimo per la democrazia: l’equilibrio tra la libertà di manifestazione del pensiero (e cronaca) e il diritto alla reputazione e all’onore di chi è interessato da articoli di stampa. È scontato che quando tale equilibrio si rompa anche i giornalisti, come tutti coloro che esprimo opinioni o raccontano fatti, debbano essere sanzionati, anche pesantemente. Il danno che la parola può fare, a volte è molto più grave di una lesione patrimoniale o fisica, perché può imprimere (del tutto infondatamente) un marchio di infamia per il quale non c’è riparazione che tenga. Ne abbiamo viste tante.
Il tema di cui si discute (anzi, si dovrebbe discutere), invece, è se tra le tante possibili e pesanti sanzioni, ci debba essere anche quella del carcere (o degli arresti domiciliari) per i giornalisti. Non mi pare un dibattito così secondario, soprattutto nel contesto di un paese lacerato da spinte disgregatrici, dal dilagare di social che propalano continuamente fake news e istigano all’odio tra fazioni di ogni genere. Il tema è invece importantissimo. Dà la misura della civiltà giuridica di un paese. La qualità delle sanzioni (che pur devono esserci) è l’indicatore di come lo Stato risponde alle pulsioni della società. Di quanto sia in grado di collocarsi al di sopra di esse, contrapponendo un criterio di equilibrio e giustizia all’urlo della piazza tentata, talvolta, dall’evocazione del Crucifige o dalla ricerca di continui capri espiatori. Una tentazione che non raramente contagia anche pezzi dello Stato stesso in una cultura giustizialista che, con la giustizia, non ha nulla a che vedere.
Ebbene, il caso Feltri (qualcuno dirà, suo malgrado, ma il merito in questo caso è irrilevante) ha un valore paradigmatico. È una concentrazione di tutte le questioni che ho citato poc’anzi. Abbiamo una giurisprudenza univoca (una volta tanto) della Corte europea dei diritti dell’uomo, della Corte di Cassazione e della Corte costituzionale, che mette in guardia contro il rischio della detenzione per i giornalisti, tanto da ritenere che, qualora la legge la preveda (ma la Costituzione italiana non la impone, così dice la Corte), la si debba limitare a casi estremi ed eccezionali. E la ragione è semplice: “evitare ogni indebita intimidazione dell’attività giornalistica” (da ultimo, Corte cost. n. 150/2021). Abbiamo i moniti della Corte che, oltre a dichiarare incostituzionale l’art. 13 della legge sulla stampa (proprio perché imponeva senza eccezioni l’applicazione della sanzione detentiva), ha lanciato a più riprese moniti al Parlamento perché intervenisse a disciplinare nuovamente la materia delle sanzioni, per ricondurla a quei canoni di civiltà giuridica che dovrebbero rappresentare le fondamenta dello Stato di diritto.
Abbiamo anche la neghittosità del Parlamento, nel quale da anni si discute dell’abolizione del carcere per i giornalisti che commettano il reato di diffamazione. Abbiamo insomma tutti gli elementi della sceneggiatura di questo film già visto ormai fin troppe volte. E che succede? Nulla. Anzi no. Succede che ci si stracci le vesti perché i cittadini, adesso, possono proporre iniziative popolari trovando meno ostacoli su quel percorso da Camel Trophy che sono le procedure per la raccolta delle firme. Del resto, come si può consentire alle istituzioni rappresentative di continuare a sottrarsi ai propri doveri di cui sono investite dalla Costituzione stessa ed erodere, con la propria inerzia, la legittimazione democratica, se non demonizzando qualunque cosa possa minacciare lo status quo? E, dunque, dai al referendum, dai al giornalista (possibilmente avversario), dai al capro espiatorio di turno. E che Beccaria riposi in pace.
