La rivoluzione digitale è penetrata di soppiatto oltre le mura invalicabili del potere legislativo e le vestali si dimenano sconvolte innanzi al sacrilegio compiuto. La possibilità di sottoscrivere le proposte referendarie apponendo una semplice firma digitale, senza la fatica di dover trovare e di doversi poi recare in qualche lontano gazebo o, ancor peggio, in un desolato ufficio comunale sta mettendo in fibrillazione i sacerdoti della democrazia rappresentativa. In questo paese, in realtà, la partecipazione popolare nel procedimento legislativo non ha mai avuto vera fortuna; né le proposte popolari di legge, né i referendum hanno mai effettivamente inciso nella regolazione di importanti questioni che incidono sulla vita dei cittadini.

Il referendum sul divorzio o quello sull’aborto sono stati significativi solo e soltanto perché falliti, sol perché ne è uscita confermata la volontà delle Camere. Bisogna volgere lo sguardo al referendum sulla responsabilità civile dei giudici dell’8 novembre 1987 o al referendum sulla legge elettorale del 9 giugno 1991, con il trionfo di Mario Segni, o del 18 aprile 1993, con il successivo via libera al Mattarellum, per trovare traccia di consultazioni popolari che hanno lasciato un segno evidente nella vita politica del paese. Segni, in verità, che poi, o sono stati cancellati da una brusca restaurazione o sono stati annacquati sino all’irrilevanza dalle corporazioni minacciate.

Per il resto – incluso il referendum sulla riforma costituzionale Renzi-Boschi del 2016 – è stato un frequente succedersi di fallimenti e di bocciature volte alla conferma dello status quo. Nulla di preoccupante o di rivoluzionario, quindi; un’arma spuntata dicevano in tanti. Eppure quel che è successo e sta succedendo nella sottoscrizione del referendum sull’eutanasia e sulla liberalizzazione delle droghe leggere ha messo in allarme apparati e corporazioni, tutti all’unisono preoccupati dal profilarsi di una inedita democrazia telematica che possa mettere in discussione la rappresentanza parlamentare. Strano destino quello dell’Italia, perché sinora all’incirca i medesimi ambienti lanciavano strali contro la scarsa qualità dei lavori parlamentari, contro il deficit di collegamento tra la politica e il cosiddetto paese reale, contro l’affermarsi di signorie tecnocratiche che tendono a governare le sorti della società. Al metronomo che dovrebbe misurare le alternanze fisiologiche tra la democrazia rappresentativa e la democrazia diretta e che dovrebbe vedere il corretto espandersi dell’una di fronte alla crisi dell’altra, si preferisce un immobilismo senza via di uscita.

Una impasse paralizzante, ma foriera di vantaggi, in cui la rappresentanza parlamentare resta supina ai diktat delle oligarchie più agguerrite e la partecipazione popolare ha un minuscolo diritto di tribuna di cui deve guardarsi bene dall’abusare. Ci sarebbe da spiegare perché tutti si lamentino della curva sempre più decrescente della partecipazione alle competizioni elettorali; perchè tutti si dolgano dello svuotarsi dei partiti e delle loro sezioni; perché tutti vedano scenari foschi per la fuga dei giovani dell’impegno politico e poi quando si tratta di rendere più performante uno strumento di rilevanza costituzionale come il referendum si sollevano obiezioni e si urla al ribaltone populistico.
Sorge il sospetto, ma il mero sospetto, che la firma digitale destrutturi molto più profondamente di quanto si immagini l’organizzazione politica del paese e che, in fondo, gli stessi circuiti che hanno fatto delle battaglie referendarie uno strumento identitario altamente simbolico, possano essere scippati di una riserva di consenso e di una identificazione ideale che il clic su uno schermo annichilisce e ignora. Se le élites del paese hanno sempre agito sul Parlamento e sul Governo per conseguire obiettivi di promozione e, molte più volte, di conservazione del proprio potere e dei propri privilegi, altri gruppi minoritari hanno agitato il ricorso al referendum come strumento per connotarsi e per distinguersi politicamente e assicurarsi così una non marginale visibilità pubblica.

Entrambi i protagonisti hanno fatto del monopolio delle proprie sfere di influenza una gelosa prerogativa, poco incline a commistioni e alleanze di sorta. Una separatezza che rimetteva agli uni i piani alti della legislazione e agli altri il sottoscala della rappresentanza diretta attraverso la raccolta di firme per saltuari quesiti referendari. La digitalizzazione spiazza entrambi e li lascia privi di obiettivi di gerenza politica sul lungo periodo. Ogni conquista parlamentare – se non riguarda le materie sottratte a referendum per Costituzione – può rivelarsi precaria e rischia di essere sottoposta a una sorta di obliquo, quanto irrituale, voto confermativo mediante la chiamata referendaria del popolo. Se in pochi giorni centinaia di migliaia di elettori – in un non lontano click day – potranno decidere che si debba andare alle urne per stabilire le sorti di una qualsiasi legge, persino di quelle appena approvare (vedi la minaccia di un voto sul green pass), è chiaro che si spalanca uno scenario totalmente imprevisto e dagli sbocchi imprevedibili.

Da anni non mancano sondaggi, petizioni, sottoscrizioni sulla rete che raccolgono, talvolta, un impressionante messe di adesioni. Se questa informale deep democracy si traduce in un’immediata iniziativa referendaria che punta quella legge o quell’articolo, la giustizia o la scuola, la sanità o le licenze commerciali, le banche o le assicurazioni senza neppure la mediazione di una formazione politica, senza neppure un’organizzazione che metta in piedi i gazebo, par chiaro che ci attende un mondo nuovo. Una modifica sostanziale della democrazia liberale e rappresentativa per come l’abbiamo conosciuta e di cui, in tanti, hanno dichiarato da tempo la crisi, se non la morte e che adesso, almeno nel nostro paese, ha trovato un killer silenzioso e rapido che premendo il tasto di un mouse può sparare alla tempia dei potentati che amministrano la legislazione e ne influenzano le scelte.