È una prova di maturità democratica di alto livello. In un paese in cui si aggirano grumi consistenti di un reducismo giudiziario che pretende – dopo alterne e discusse carriere – di impartire lezioni di legalità costituzionale e processuale in vista degli incerti tempi della riforma, l’iniziativa referendaria sulla giustizia ha il merito di misurare la vitalità di un dibattito che solo una democrazia si può permettere.

Un tempo l’avremmo chiamata democrazia diretta – sintagma prezioso poi involgarito dal demagogico ricorso al popolo – che ha quale momento qualificante non solo il voto in sé considerato, ma la discussione che lo precede in cui le opinioni si confrontano e le idee collidono. Per una Repubblica nata da un referendum chi muove obiezioni farebbe bene a rendere palesi le reali preoccupazioni che lo agitano prima di dire che la “materia” non si presta alla votazione popolare. Negli ultimi tempi si palesano in modo insistente sulla stampa i fantasmi di una giurisdizione che, poco inclini al meritato pensionamento, si affannano nel voler esprimere opinioni e imprimere orientamenti dopo aver trascorso quasi tutti interi decenni sotto l’ombrello acconciato dalle correnti e dopo aver usufruito a piene mani delle sue prebende.

È un buon segno sia chiaro. Se è necessario richiamare dalle retrovie i grand commis di una certa magistratura – quasi sempre pubblici ministeri con apprezzabili entrature mediatiche – vuol dire che la discussione sta prendendo una brutta piega e che un mondo è in fibrillazione. Perché, si badi bene, malgrado le convergenze politiche degli ultimi tempi, anzi delle ultime ore, questo modello di magistratura, con le sue storture e le sue deviazioni andava benissimo a tanti e pure a tantissimi. Basterebbe fare una rapida ricognizione dei contatti politici, giornalistici, economici, accademici dell’ex presidente dell’Anm finito nella bufera due anni or sono, del numero di convegni, dibattiti, pubblicazioni, delle sponsorizzazioni di ogni genere per comprendere che quel modello di magistratura, friabile e permeabile, stava bene a molti. E sono proprio quei tanti, quegli apparati che, oggi, temono che un sistema possa essere incrinato. La magistratura – per ragioni che in questa sede sarebbe impossibile esporre – è stata resa negli ultimi due decenni un sistema verticale, gerarchizzato, controllato, burocratizzato.

L’affresco costituzionale di una magistratura orizzontale, paritaria, insensibile alle imposizioni verticistiche è stato deturpato, piegato e sagomato in favore di istanze del tutto difformi. Non si vuol dire che queste istanze siano prospettive eversive o illecite di per sé, quanto evidenziare che sono assetti diversi da quelli immaginati dal Costituente del 1947 che, in tanto aveva riversato sulla magistratura un potere ampio, autonomo e incondizionato, in quanto lo aveva concepito come parcellizzato, diffuso, sottratto a spinte centripete. L’ergersi di un corpo giudiziario – come lo si suole definire – articolato, centralizzato e minuziosamente disciplinato secondo regole, però, ad ampia discrezionalità (si pensi solo ai criteri per le nomine agli gli uffici direttivi) si pone in contrasto con la Costituzione e con la riserva di legge che regola l’ordinamento giudiziario (articolo 108).

Ed è questo il vero punto della discussione che le persistenti camarille sulla separazione delle carriere pongono in ombra e lasciano pericolosamente in disparte. Occorre realisticamente prendere atto che le forze riformatrici che hanno di mira questo risultato, inteso come la madre di tutte le battaglie, sono cadute in una gigantesca trappola. È del tutto evidente che gli argomenti che militano contro la formazione di un pericoloso apparato composto di soli pubblici ministeri sovrastano le ragioni di quanti immaginano di guadagnare il risultato di un processo reso più giusto per effetto della piena equiparazione tra difesa e accusa e della scissione delle carriere con il giudice. Aver spostato praticamente solo su questo piano la discussione in corso sulla giustizia agevola oltre ogni misura la conservazione dello status quo.

Ci si batte contro un fantasma che sarà impossibile scacciare; una lotta impari e inutile, perché trascura l’aspetto fondamentale della necessità di contenere e ribaltare il centralismo illiberale che regge le sorti della magistratura italiana. La discussione è stata traslata in una palude in cui i contendenti, non a caso, sono impantanati da decenni e la momentanea illusione di una sortita con il favore della politica – oggi indignata domani chissà – è nient’altro che un modo per affondare di più nelle sabbie mobili di un dibattito animato, ma senza un’effettiva way out. Il processo di verticalizzazione dell’ufficio del pubblico ministero ha circa 30 anni di vita ed è perfettamente consolidato in ogni suo risvolto. E purtroppo non sarà certo qualche circolare del Csm a metterlo seriamente in discussione, né a scalfirne la possente efficacia che non ha eguali in Occidente. È un tema cruciale per una riforma della magistratura e del processo che voglia contenere l’espansione di un perverso disegno che ha sostituito al protocollo costituzionale del cd. potere diffuso l’ergersi di diffuso potere di sorveglianza penale a guida oligopolistica.

A questo occorre aggiungere che il controllo burocratico esercitato sull’attività dei giudici – in vista del solo risultato esteriore di una produttività senza qualità che svilisce la funzione – è non solo parimenti giunto a compimento, ma appare addirittura incentivato alla luce di riforme prossime che puntano al consolidamento degli uffici di giustizia in freddi e meccanici “sentenzifici”. Di questo i referendum non discutono, ma il dibattito che li precede è un momento importante per fare chiarezza sugli snodi decisivi della giustizia in Italia che conosce esempi fulgidi di dedizione e valore, ma anche – occorre ricordare ai mistici dell’ancien regime – vizi e aberrazioni che non hanno eguali altrove in Europa.