Nella piazza antistante l’ingresso del Tribunale di Napoli si svolgerà, da lunedì a venerdì prossimo, la raccolta di firme a sostegno dei sei referendum per la giustizia. Mi piace definirli così perché ciascuno di essi rappresenta un aspetto critico del nostro ordinamento giuridico e persegue l’obiettivo di rendere migliore l’amministrazione della giustizia nel Paese.

Mi piace anche pensare che Giovanni Porzio, mai troppo celebrato maestro del foro partenopeo al quale è intitolata la piazza, faccia da nume tutelare all’evento e stimoli le coscienze degli avvocati napoletani inducendoli a recarsi in massa alla firma. È un obbligo morale cui l’avvocatura, quella napoletana in special modo, non può sottrarsi. Napoli, infatti, può essere assunta a paradigma di tutte le criticità che la campagna referendaria segnala e intende rimuovere. Una per tutte: è stata la sede del processo a Enzo Tortora e non c’è bisogno di aggiungere altro per commentare la devastazione che una simile vicenda può produrre nella vita di un uomo.

Da allora è trascorso molto tempo e un nuovo codice segna i passi di indagati e imputati nei corridoi del Palazzo di Giustizia. Epperò la cultura delle garanzie stenta a decollare. Uno dei quesiti referendari riguarda proprio questo punto, mira cioè ad arginare il ricorso eccessivo alla custodia cautelare in carcere, oggi consentito sul presupposto che l’indagato – spesso non solo presunto innocente ma innocente davvero! – possa commettere delitti della stessa specie di quello per cui si procede. Al di là delle apparenze, la norma che il referendum intende abrogare si presta a un uso eccessivamente discrezionale e – diciamolo pure – strumentale della custodia cautelare in carcere, con conseguenze spesso irreparabili per il malcapitato di turno.

In un Paese civile lo Stato dovrebbe considerare un arresto, un processo o una condanna come una propria sconfitta e i magistrati, a cominciare dai pm, dovrebbero essere costernati al cospetto di un cittadino finito nelle maglie della giustizia. Invece si osannano i “pm d’assalto”, si afferma che l’assolto è un colpevole che l’ha fatta franca e altre amenità simili. Ciò che sconcerta e appare ai limiti dell’eversione dell’ordine costituzionale non è tanto il fatto che argomenti del genere sfuggano di bocca a qualche al bar dello sport, ma che siano da anni il mantra di giornalisti, conduttori televisivi e magistrati. In altri termini, coloro che dovrebbero sforzarsi di trasmettere un messaggio di ossequio alle leggi vigenti, divengono i principali e più strenui nemici della prima legge dello Stato: la Costituzione. E cosa potrà pensare un cittadino che, suo malgrado, finisce sotto processo? Che grado di fiducia potrà mai nutrire nei confronti di un ordine giudiziario che appare così apertamente schierato contro i valori costituzionali?

Il caso Palamara ha messo finalmente in luce ciò che l’avvocatura denunziava da tempo: l’asservimento del Csm a logiche correntizie, a discapito del merito; lo strapotere delle Procure giunto sino al punto di incidere nella vita politica del Paese attraverso l’uso strumentale del processo; la necessità che si separino le carriere di giudici e pm. Tra i quesiti referendari ve ne sono due che riguardano proprio il Csm e l’ordinamento giudiziario. Uno concerne proprio la necessità che si distinguano le funzioni tra pubblici accusatori e magistrati giudicanti e che non si possa più tanto agevolmente transitare dall’una all’altra funzione, creando così, quella inevitabile commistione di ruoli che non giova alla cultura liberale della giurisdizione immaginata dal nostro codice di procedura penale e dalla stessa Costituzione.

Un altro quesito incide, poi, sul meccanismo di presentazione delle candidature al Csm, eliminando il limite delle sottoscrizioni e consentendo liberamente a chi intenda proporre la propria candidatura di misurarsi con gli elettori e non con le correnti. Mi capitò, mesi fa, di ascoltare un dibattito, via web, tra esponenti di vertice della magistratura associata cui partecipava anche un giudice che non aveva collegamenti con logiche correntizie, né rivestiva incarichi se non quello di giudice del Tribunale per il quale aveva vinto il concorso; ebbene, proprio questo giudice, che al mattino si alzava (e si alza) per andare al lavoro e che null’altro faceva (e fa) se non applicare la legge, era contrario all’attuale meccanismo di presentazione della candidature al Csm e avrebbe preferito addirittura il sorteggio. I quesiti referendari, allora, interpretano un sentimento profondo di giustizia e rispondono all’esigenza che la stessa magistratura avverte come non più differibile.  Ma occorre fare di più: occorre separare le vocazioni, la cultura, la formazione, la vita professionale e la disciplina dei giudici da quella dei pm.

Risale a circa tre anni fa la raccolta di firme che l’Unione Camere Penali Italiane, insieme con i Radicali, organizzò a sostegno della proposta di legge popolare sulla separazione delle carriere. Il quesito referendario che riguarda la separazione delle funzioni è solo un primo tassello perché possa realizzarsi un’autentica separazione tra chi accusa e chi giudica. È una riforma non più differibile e non mi persuade chi opina una deriva autoritaria del pm se ricondotto fuori dallo schema ordinamentale della magistratura. Non mi convince perché innanzitutto la proposta di legge sostenuta dall’Ucpi non prevede affatto la sottoposizione del pm al potere esecutivo e perché il pm resta soggetto alla legge e alla Costituzione. Se ne ricordino tutti i magistrati e i giornalisti che tradiscono la prima legge dello Stato.