Infiamma il dibattito sui referendum relativi alla giustizia con prese di posizioni che variano dalla critica serrata (qualcuno li ha definiti «un atto ostile nei confronti della magistratura») fino a giungere a considerazioni sulla loro effettiva utilità dal punto di vista giuridico ovvero sulla loro inopportunità visto che giace in Parlamento un disegno di legge delega sulla riforma dell’ordinamento giudiziario che, per la verità, tocca solo alcuni dei profili che sono implicati nei quesiti referendari. In ogni caso la strada è ancora lunga per arrivare (eventualmente) alla espressione del voto popolare, visto che è appena iniziato il procedimento previsto dalla Costituzione, ma certamente il deposito in Cassazione dei sei quesiti referendari non lascia indifferenti.

Si arriva a porre in essere dei quesiti referendari, al di là di ogni strumentalizzazione che pure è possibile, quando un tema è sentito in modo particolarmente considerevole e cioè quando diventa elemento di riflessione costante e quotidiana che supera quei limiti della dialettica rappresentanti–rappresentati e diventa necessità di sentire direttamente la “voce” del popolo che è sovrano. Prenderò posizione sui temi posti all’attenzione del popolo italiano, ma ancor prima mi sia consentita una riflessione di carattere generale. Solo così si può leggere, al di là dello specifico contenuto dei singoli quesiti, l’iniziativa referendaria che quindi è occasione – per utilizzare le parole della commissione Luciani, istituita per elaborare proposte di interventi per la riforma dell’ordinamento giudiziario – di «un profondo rinnovamento culturale del quale devono essere partecipi la politica, i mezzi di informazione, l’opinione pubblica e soprattutto la magistratura». Essendo in gioco, a mio modesto parere, il rapporto tra i poteri dello Stato che non possono essere chiamati fuori da questo dibattito.

E allora passo a una lettura dei quesiti referendari avvertendo che la stessa non può essere una lettura tecnica, di merito, ma in una ottica di quella sfida di rinnovamento culturale che, come sopra detto, da autorevolissima fonte è auspicato. Tutti hanno un filo rosso che li unisce: il tentativo di dare una risposta alla crisi che negli ultimi tempi ha scosso la magistratura italiana e non solo per le vicende più o meno note per divulgazione giornalistica. Come risolvere il tema della (ir)responsabilità dei magistrati a fronte di numerosi errori giudiziari per i quali non vi è mai una diretta responsabilità civile, oltre a quella disciplinare e penale per la quale siamo davanti a regole, per così dire, comuni. È una domanda che agita il dibattito da sempre, ma credo sia giunto il tempo di una modifica legislativa nel senso di una responsabilità professionale al pari delle altre se, come è vero, esistono delle regole di procedura che regolano l’agire del magistrato limitandone la discrezionalità quando diventa arbitrio.

A questo tema è collegato il tema del ruolo dei laici nei Consigli giudiziari che si chiede possano essere chiamati a una competenza piena nei procedimenti di valutazione di professionalità dei magistrati. Non si vede perché, in via preliminare, si debba pensare a condizionamenti frutto o di ostilità preconcette o indebite compiacenze quanto piuttosto poter esaltare la valutazione giusta e pregnante dell’avvocatura che quotidianamente si confronta con i magistrati nel servizio giustizia. Potrebbe essere questo il vero campo di elezione di un rinnovato dialogo culturale che credo possa fare da apripista verso effettive riforme sostanziali sulle funzioni svolte.

Ecco che a ciò si collega il tema eterno della separazione delle carriere. È un tema non affrontato effettivamente dal quesito referendario perché, dovesse passare, non risolve il tema centrale della sottoposizione di tutti i magistrati – quanto alle carriere, incarichi e disciplina – a un unico organo di autogoverno composto da giudici e pubblici ministeri che è il Csm. Del quale pure se ne vuole modificare, in parte, il sistema elettorale, dimenticando che una rondine da sola non fa primavera, per cui ben altro ci vuole per superare le correnti. Cosa che, tra l’altro, io non auspico completamente perché esistono gruppi, nella magistratura associata, che portano avanti idee meritevoli di considerazione, identità di visioni della giustizia, della società nella quale ci si trova a operare che sono importanti e indicano una rotta. Di questo non ci si può privare, a prescindere dall’appartenenza a una corrente piuttosto che a un’altra, perché la democrazia trova sbocco anche nella libertà associativa all’interno della magistratura perché, si voglia o no, esistono delle idee nei limiti, ovviamente, della interpretazione della legge.