Il 22 giugno l’assemblea Parlamentare del Consiglio d’Europa, grazie alla tenacia di Matteo Angioli, del Sen. Roberto Rampi (Pd) e di Andrè Gattolin – vicepresidente del Consiglio Generale il primo e consiglieri generali del Partito Radicale gli ultimi due – ha approvato una risoluzione che cristallizza il “diritto alla conoscenza” come diritto umano fondamentale. Una delle due battaglie alle quali Marco Pannella ha dedicato gli ultimi anni della sua vita. L’altra era quella, più antica, per ottenere una “giustizia giusta”. Cosa c’entra il diritto alla conoscenza con i referendum sulla giustizia promossi dal Partito Radicale e dalla Lega? C’entra eccome.

Per gli addetti ai lavori il sistema di (auto)governo della magistratura era faccenda nota. La politica sapeva come funzionava (e funziona) e ha cercato, per timore e per convenienza, con alterne fortune, di entrarci in contatto, di ricavarsi strapuntini di impunità o occasioni di aggressione all’avversario di turno. Il quarto potere, quello dei media, tanto ne conosceva i meccanismi che lo ha sostenuto e fatto crescere nel tempo, nascondendolo agli occhi dell’opinione pubblica, anche in questo caso per timore, per ricavarsi strapuntini di impunità o di privilegi sul versante delle inchieste da sparare in prima pagina con il mostro di turno. La magistratura non allineata pure ne era perfettamente a conoscenza, così come l’avvocatura, ma di rivolte non se ne sono viste in tanti anni, meglio conviverci, fare spallucce, bofonchiare qualcosa, purché sottovoce e farsi amico qualche potente, tanto questo è il paese di “io speriamo che me la cavo”. Ebbri di questo immenso potere di condizionamento di tutta la vita democratica del Paese, i nostri hanno commesso un errore, come tutti gli errori determinati dalla eccessiva consapevolezza di sé stessi.

Quando sono uscite le chat e le intercettazioni di Luca Palamara, i tenutari del potere dentro la magistratura hanno pensato di agire more solito: un paio di importanti giornali nazionali amici pronti a mettere all’angolo “il cattivo” di turno eletto a capro espiatorio di tutti i peccati; i Tg della concessionaria del servizio pubblico in ordinata scia; un paio di processi disciplinari lampo per Anm e Csm, senza dar la parola a 133 testi chiesti dalla difesa con conseguente espulsione “della causa di tutti mali” da Anm e Csm. Partita chiusa e si torna a fare come prima senza doverne mai rispondere a chicchessia. Qualcosa è andato storto, però, perché se da un lato era evidente a tutti che Palamara non è che chattava o parlava da solo, dall’altro è stata anche evidente l’opera di copertura ed insabbiamento delle responsabilità di una intera categoria: la classe dirigente interna alla magistratura, con i suoi metodi di selezione. Ed è la classe dirigente più potente del Paese.

Fatto di tanta imbarazzante evidenza che è deflagrato non appena Palamara ha annunciato, dalla sede del Partito Radicale, di volersi mettere a disposizione per raccontare come sono andate le cose per tanti anni, nelle segrete stanze (e nei sottoscala) del Csm e dell’Anm. E i racconti del libro Il Sistema – al di là delle singole vicende e dei personaggi coinvolti che il grande pubblico neanche conosce – hanno profondamente indignato l’opinione pubblica. Una parte della stampa ha capito che dietro l’inaspettato successo editoriale – un libro che il Segretario del Pr Maurizio Turco ha definito uno strumento di lotta politica – c’era e c’è la volontà dell’opinione pubblica di conoscere e di sapere come funziona quel mondo dal quale escono indagini e sentenze che possono distruggere la vita delle persone, di conoscere quel mondo che, da tangentopoli in poi, gli era stato raccontato come un mondo di eroi senza macchia e senza paura, che a colpi di inchieste e di arresti, stava “smontando” l’Italia (Governi, Regioni, Comuni) dell’illegalità e dell’immoralità.

Si è aperto così un varco di conoscenza e di indignazione che ha scompaginato vecchi equilibri determinando, a valanga, altri racconti: quello di Storari e quello di Davigo, quello del senatore Morra e quello di Ardita e via elencando. E il potere della conoscenza, quando viene consentita, si è dimostrato quello di una bomba atomica, che ha portato ai minimi termini la credibilità dell’intero sistema della giustizia italiana. Lo stesso Salvini, pronto ad intercettare gli umori dell’opinione pubblica, ha scritto sui suoi social, insieme a Giulia Bongiorno, che il racconto di Palamara ha consentito alla gente e alla Lega di rendersi conto dell’urgenza delle riforme. Ed è un dato di fatto che un anno fa i referendum non sarebbe stato possibile convocarli: non c’erano le condizioni e la stessa Lega, un anno fa, non ci sarebbe stata.

Oggi si registra invece una amplissima convergenza di forze politiche e sociali. Ed è per questo che oggi la classe dirigente dell’autogoverno della magistratura è terrorizzata dai referendum: ha ragione, ha fallito e farebbe bene a farsi da parte lasciando spazio alle nuove leve, nell’interesse del Paese e della Giustizia. La ministra Marta Cartabia è lacerata dalla domanda che gli viene posta più frequentemente di questi tempi: “Ministra, come facciamo a tornare ad avere fiducia nella Giustizia in Italia?”. Per Piero Calamandrei, il giudice era colui che nell’unica trattoria del paese, siede da solo all’ultimo tavolo, con sua unica commensale la sua indipendenza. Quanto è distante questa figura anelata da Calamandrei con lo spettacolo penoso che finalmente l’opinione pubblica ha potuto conoscere? Il patto sociale sulla giustizia è venuto meno, si è sgretolato. Perché mai il cittadino messo sotto processo dallo Stato dovrebbe accettare sentenze pronunciate da persone a cui non viene più riconosciuta quella autorevolezza del giudice austero e rigoroso di Calamandrei o del giudice che soffre il potere di togliere la libertà di Sciascia, piuttosto che goderne ed abusarne? Se c’è una cosa che gli italiani non perdonano è quella di essere giudicati da chierici che predicano bene e razzolano male, almeno quanto quelli che condannano riservandosi per loro solo autoassoluzioni.

Cosa c’entrano i referendum con queste riflessioni? Cosa c’entra l’abrogazione di quelle norme che impediscono di citare a giudizio il giudice in caso di danni cagionati nell’esercizio delle funzioni o l’abrogazione delle norme che consentono ai pm di diventare giudici e viceversa nello sviluppo della loro carriera, o ancora di quelle norme che impediscono agli avvocati di partecipare alla valutazione della professionalità dei magistrati in quei mini Csm che sono i Consigli giudiziari, solo per fare tre esempi: cosa c’entrano con quanto abbiamo appena visto? Sono riforme sufficienti, quelle proposte con i sei quesiti referendari, per rimettere in ordine un sistema impazzito, dove l’unica parola che conta è potere, dove non c’è traccia di responsabilità, di qualsiasi specie e natura, civile, professionale, disciplinare? Ovvio che no, non sono riforme sufficienti, non possono essere altro che l’inizio di un percorso riformatore di un sistema che ha consentito abusi e soprusi senza controlli e contrappesi.

È un sistema, che anche a livello Costituzionale non ha retto al trascorrere del tempo e alla trasformazione profonda della società: i tempi di Calamandrei sono lontani e sono lontani anche i modelli di giudici a cui i nostri padri costituenti si riferivano. Ed è per questo che i sei referendum sulla giustizia sono l’occasione per ricostruire il patto sociale su cui si fonda l’amministrazione della giustizia. La politica ha fallito, non è stata capace e non ha avuto la forza di evitare quel degrado che per la prima volta è stato fatto conoscere. Ora i cittadini pretendono di dire la propria, di decidere direttamente, non solo sull’abrogazione di quelle norme indicate nei quesiti, ma evidentemente pretendono di indicare una direzione di marcia che alla politica converrà seguire. Come si ricostruisce la fiducia dei cittadini nella giustizia? Dandogli ascolto senza tradire la loro volontà. Per questo i referendum, in questo momento storico, sono un’occasione irripetibile, sono l’occasione per restituire ai cittadini parola, voce e fiducia nei confronti della giustizia.