1. Fino ad oggi, la storia del referendum abrogativo popolare è stata prima felice, poi dolentissima, infine funesta. Può essere utile ripercorrerla, per ricavarne elementi di giudizio sull’imminente, duplice, tornata referendaria in materia di giustizia e di eutanasia.

2. Costituzionalmente, il voto referendario è la “seconda scheda” di cui l’elettore dispone per imporre una decisione erga omnes: l’abrogazione popolare, infatti, cancella una legge votata in Parlamento ma non condivisa dalla maggioranza del corpo elettorale. Di più: approvando quesiti abrogativi di specifiche parti di una legge, l’elettore si fa legislatore, perché l’esito del suo voto sarà una normativa diversa da quella in vigore. Opponendosi a singole decisioni legislative, il referendum apre così una contraddizione dialettica nel circuito democratico rappresentativo, agendo come limite al dominio della maggioranza.

3. A rendere il referendum particolarmente insidioso per le forze parlamentari sono anche altre sue caratteristiche.
È promosso da una minoranza, elettorale (500.000 sottoscrittori) o territoriale (5 consigli regionali), iscrivendo così nell’agenda politica temi che la maggioranza governativa preferirebbe evitare. È sottratto alle mediazioni parlamentari perché il treno referendario, una volta superate le stazioni del sindacato di legittimità in Cassazione e di ammissibilità alla Consulta, arriva inevitabilmente in stazione. Il solo modo per il Parlamento di interromperne il tragitto è abrogare o modificare la legge oggetto di referendum, anticipando la deliberazione popolare. E ancora. L’iniziativa referendaria è per sua natura trasversale: aggrega soggetti di schieramenti opposti e divide forze politiche al proprio interno. Accade anche nel corpo elettorale: chiamato a rispondere in modo binario ad una specifica domanda, l’elettore (se adeguatamente informato) decide in autonomia. Il referendum si rivela così un cuneo capace di far saltare, ad ogni latitudine, le consuete logiche di appartenenza politica.

4. Ecco perché il sistema dei partiti, temendo per il proprio monopolio sulle decisioni legislative, è corso ai ripari, costruendo nel tempo una sorta di convenzione antireferendaria. L’ostracismo si manifesta immediatamente: il referendum è introdotto dalla Costituzione del 1948, ma il Parlamento approverà la necessaria legge applicativa nel 1970, con ventidue anni di ritardo. Quella legge costruisce il procedimento referendario come un percorso a ostacoli, introducendovi rigide preclusioni temporali. Tre mesi consecutivi per raccogliere le firme necessarie. Divieto di richieste di referendum nell’ultimo anno di legislatura e nel semestre successivo alle elezioni. Blocco e rinvio del referendum in caso di elezioni anticipate, come accaduto nel 1972, nel 1976, nel 1987 e nel 2008, quando le Camere furono sciolte anticipatamente pur di evitare consultazioni referendarie già convocate. Obbligo di voto in una domenica compresa tra il 15 maggio e il 15 giugno, agevolando così l’abitudine del Governo di collocarlo in date balneari a solleticare l’astensionismo che inficia la consultazione popolare.

Infatti – altro ostacolo – il referendum è valido solo «se ha partecipato alla votazione la maggioranza degli aventi diritto» (art. 75, comma 4, Cost.): è il cd. quorum strutturale, in assenza del quale la consultazione referendaria è nulla. Pensata dai Costituenti per contrastare l’astensione, tale previsione ha finito, invece, per favorirla ed incentivarla. Accadde nel 2005, in occasione dei quattro referendum in tema di procreazione assistita: dai vertici della CEI al pulpito della parrocchia più sperduta, l’appello al non voto fu plateale e reiterato. Ricorrendo così all’aiuto pagano di Ponzio Pilato, il cardinale Ruini centrò l’obiettivo di far fallire l’appuntamento referendario. La difficoltà a raggiungere il quorum è poi accresciuta dalla presenza di morti e fantasmi nelle liste degli aventi diritto al voto, la cui revisione è solo periodica e spesso sciatta. Elettori defunti o irreperibili (come molti italiani residenti all’estero e iscritti all’apposita anagrafe elettorale) concorrono così a innalzare l’asticella del quorum, alterando l’esito della consultazione: accadde nel 1999, quando il referendum abrogativo della quota proporzionale nella legge elettorale della Camera fu invalidato per soli 150.000 voti.

Alla convenzione antireferendaria, infine, ha concorso anche la Corte costituzionale quale giudice di ammissibilità dei quesiti abrogativi. A partire dalla sent. n. 16/1978, la sua giurisprudenza si è allontanata da una lettura tassativa dei limiti previsti all’art. 75, comma 2, Cost., creando una panoplia di ulteriori divieti sempre più sofisticati. Il risultato è un’imprevedibile giurisprudenza referendaria, simile alle sponde di un biliardo più che ad una serie di coerenti precedenti. L’effetto ghigliottina che ne è derivato è stato – a un tempo – causa ed effetto di tornate referendarie bulimiche: il Comitato promotore presentava tanti quesiti proprio perché tanti ne bocciava la Corte costituzionale (e viceversa).

5. Post hoc, propter hoc: con la sola eccezione dei quesiti del 2011 (in tema di acqua pubblica, nucleare, legittimo impedimento), nelle ultime tornate referendarie (1997, 1999, 2000, 2003, 2005, 2009, 2016) ha sempre prevalso il non voto. È il quadro clinico di un istituto agonizzante: qualunque referendum, su qualunque materia, da chiunque promosso, rischia di fallire. A smentire la diagnosi ci provano, ora, due iniziative referendarie. L’una, dell’Associazione Luca Coscioni, mira a depenalizzare l’eutanasia di soggetti non vulnerabili, attraverso l’abrogazione parziale dell’art. 579 c.p. L’altra, di Partito Radicale e Lega, promuove sei quesiti sulla giustizia: elezione del CSM, responsabilità diretta dei magistrati, meccanismo per la relativa valutazione professionale, separazione delle carriere, limiti al ricorso alla custodia cautelare, abrogazione della legge Severino. Al netto dei diversi temi, non sono iniziative assimilabili esprimendo approcci differenti allo strumento referendario.

6. L’iniziativa dell’Associazione Coscioni usa il referendum come strumento di decisione diretta e alternativa alla (non) decisione parlamentare. In tema di eutanasia, infatti, il Parlamento è muto. Non discute la proposta di legge popolare depositata già nel 2013. Ha ignorato i due moniti della Consulta a colmare con legge una lacuna incostituzionale. Guarda disinteressato ai processi che si celebrano per il reato di aiuto al suicidio a carico di Mina Welby e Marco Cappato (sempre assolti, finora). Si volta dall’altra parte, davanti ai tanti malati terminali, piegati da sofferenze insopportabili e irreversibili, cui è negato il diritto a morire dignitosamente perché il loro caso non è incapsulabile nella fattispecie ritagliata dalla sent. n. 242/2019 della Corte costituzionale.

L’iniziativa del Comitato promotore mira ad aggregare una maggioranza elettorale che non ha voce né ascolto in Parlamento, traducendola in volontà normativa attraverso il referendum quale fonte del diritto. Il suo problema sarà, innanzitutto, mettere in sicurezza il quesito vincendo la sfida titanica di raccogliere le firme necessarie tra luglio e settembre, contando solo sulle proprie forze. Auguri sinceri.

7. È un problema che il Partito Radicale ha risolto associando alla propria iniziativa la Lega. Pagando però dazio.
Innanzitutto nella scelta dei quesiti. Dei 6 depositati, 4 riguardano l’ordinamento giudiziario, 1 la custodia cautelare, 1 il regime delle cariche elettive e di governo, nessuno il nucleo duro della giustizia: i delitti e le pene. Riproporre il referendum sull’ergastolo (come i Radicali fecero nel 1981 e, mancando le firme necessarie, nel 2013), o formulare quesiti mirati su due leggi massimamente carcerogene (la Bossi-Fini in tema di immigrazione, la Fini-Giovanardi in materia di stupefacenti) non è un’opzione praticabile, se scegli di promuovere i referendum con Matteo Salvini.

Scelta che condiziona anche la dinamica referendaria. La Lega, forza di maggioranza, è chiamata a concorrere alle riforme dell’Esecutivo sulla giustizia. Nelle sue mani l’iniziativa referendaria è negoziabile, perché – come ha detto il leader leghista – «non è contro qualcuno, ma è di stimolo al Governo e al Parlamento». Novello Fregoli abituato a interpretare tutte le parti in commedia, per lui non è un problema. Lo è invece per i Radicali, la cui storia è sempre stata quella di strenui difensori del quesito prima, del voto abrogativo poi. Sull’idea dello stimolo referendario Pannella, non a caso, ha sempre rovesciato tutto il suo corrosivo sarcasmo.

Da ultimo, c’è un problema di affidamento. Non basta accompagnarsi occasionalmente ai Radicali per acquisirne la cultura profondamente garantista. Né basta essere pannelliani per riuscire in ciò che Pannella era maestro: contaminare gli altri con le proprie idee. È in gioco l’egemonia su questa battaglia referendaria, tra chi l’ha nel proprio dna politico e chi, invece, vi ha aderito per tatticismo e strumentalmente. Anche da ciò dipenderà la sorte dei sei quesiti sulla giustizia.