La riforma e i limiti
Riforma della giustizia, non si possono barattare le garanzie con la velocità
Non è chiaro quale sarà l’approdo della riforma della giustizia penale che attende gli emendamenti del Governo al disegno di legge A.C. 2435 e i conseguenti sub-emendamenti alla proposta Lattanzi. Molto probabilmente l’impianto non sarà smontato: non è difficile, allora, sviluppare alcune riflessioni generali di sistema, governato sulla cosiddetta “Giustizia 25%” in riferimento ai tempi di riduzione del giudizio penale.
Prima di entrare nel merito del tema che qui si intende sviluppare, vediamo brevemente il contesto che ha condotto ad una macchina della giustizia intasata. Siamo nel 1930: Alfredo Rocco e Vincenzo Manzini pongono mano alla riforma della giustizia penale, modificando sia il codice di procedura penale del 1913, sia quello penale del 1865, nella consapevolezza delle forti interazioni dei due modelli, ispirati entrambi ad una logica “autoritaria”, se non inquisitoria, secondo l’ideologia dell’epoca. Seguì, di lì a poco, la riforma della giustizia minorile. Identica fu la scelta anni dopo della riforma della giustizia civile. Nel tempo, abbiamo assistito ad ulteriori mutamenti, che hanno finito con l’affidare al processo penale una funzione in qualche modo impropria, ossia di lotta e contrasto ai fenomeni criminali. Si inizia con la legislazione dell’emergenza terroristica e si prosegue con quella nei confronti della criminalità.
A questo dato si è accompagnata una dilatazione sempre più ampia dell’area del penalmente rilevante e un progressivo ampliamento delle ipotesi incriminatrici inevitabilmente incanalate nella nuova “procedura”. In questo contesto, l’esigenza di mantenere in equilibrio il sistema, al di là di altre considerazioni politiche – più o meno strumentali – era affidata all’amnistia ed all’indulto, che però al momento, dopo la riforma costituzionale del 1992, sono diventati istituti politicamente del tutto impraticabili. Tutto ciò ha fatto sì che gli ingranaggi della “macchina” della giustizia, i quali devono integrarsi tra loro per assicurarne l’efficienza, si siano rivelati inadeguati. Come se ciò non bastasse, le modifiche sono state accompagnate dalla cosiddetta clausola d’invarianza finanziaria, essendo state approvate “a costo zero”. Su queste premesse, si sono delineate precise proposte di riforma da parte della Commissione presieduta dall’ex presidente della Corte costituzionale, Giorgio Lattanzi.
Nella ritenuta impossibilità di intervenire, anche minimamente, sul sistema delle incriminazioni, la riforma proposta dalla Commissione punta ancora sul processo, attraverso una riduzione qualitativa e quantitativa del sistema sanzionatorio, favorendo le misure diverse dal carcere, tra cui: ampliamento delle “uscite laterali” (pagamenti per le contravvenzioni, archiviazioni meritate); sospensione dello sviluppo processuale (messa alla prova e condotte riparatorie, improcedibilità per irreperibilità); percorsi premiali allargati (patteggiamento, rito abbreviato e procedimento per decreto); esclusione della punibilità per la particolare tenuità del fatto.
Fin qui tutto bene, in quanto il ridefinito sistema sanzionatorio tende a superare la prospettiva punitiva incentrata sul carcere e sulle misure custodiali. La criticità subentra laddove si mette mano alle restanti segmentazioni processuali: la Commissione, infatti, nel ritenere che la riforma del sistema sanzionatorio (a cui va aggiunta la prescrizione nella fase delle indagini) non sia sufficiente a decongestionare i percorsi processuali successivi, cerca di perseguire l’obiettivo di una durata ragionevole del processo aprendo la strada ad una mirata selezione di accesso all’attività di controllo attraverso le impugnazioni. Il problema, tuttavia, è che all’imputato, che per le più svariate ragioni non ritenga di aderire alle “offerte” sanzionatorie miti, dovrebbe riconoscersi il diritto ad un pieno accertamento della responsabilità attraverso l’attuazione di percorsi garantiti.
Ebbene, con la riforma strutturale del giudizio di secondo grado, a forte valenza ideologica, questo percorso garantito verrebbe meno. Si prevedono infatti modifiche all’appello, tra l’altro, sotto il profilo dell’accesso e dei suoi contenuti cognitivi e decisori; disincentivandolo, in caso di rito abbreviato, con una premialità in ingresso; prevedendo filtri alla sua proponibilità da parte del difensore dell’imputato assente; prospettando l’assegnazione del giudizio ad un giudice monocratico, salva la facoltà delle parti di chiedere, e del giudice di disporre d’ufficio, la rimessione alla composizione collegiale. Il quadro appena rappresentato, oltre al suo valore culturale e ideologico (negativo in sé), è accompagnato dal significativo mantenimento dell’attuale giudizio di primo grado, non certo a connotazione accusatoria, nonché dall’introduzione dei rinnovati filtri in precedenza citati e dalla disciplina della prescrizione governata dalla filosofia dei due orologi.
In questo modo le varie opzioni processuali si collocano tra i paternalistici comportamenti per le riferite exit strategy e gli sviluppi della fase del giudizio di primo, ed ora anche di quella di secondo grado, quanto meno sofferta e problematica. Ancora una volta si chiede al processo – ed in particolare in questo caso all’appello – il sacrificio di farsi carico di una finalità che non gli è propria.
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