Grazie al felice connubio Cartabia/Lattanzi sembra che il tormentatissimo problema della riforma della giustizia penale stia imboccando la buona strada. Nell’affidare a Giorgio Lattanzi il compito di muovere i primi passi sui temi di fondo della riforma, la Ministra Marta Cartabia ha fatto la scelta giusta. Non solo perché Lattanzi è a suo tempo stato un ottimo Presidente della Corte costituzionale, che ha tra l’altro inaugurato le aperture della Corte alla società civile, dalla scuola alle carceri, ma per la lunga esperienza in tema di riforme della giustizia penale.

Qui menzionerò solo a titolo di memoria personale e diretta l’impegno di Lattanzi nelle commissioni ministeriali per la riforma del codice di procedura penale del 1974 e della seconda metà degli anni Ottanta, grazie alle quali vide poi la luce il codice del 1988 tuttora in vigore, il primo che ha interamente sostituito uno dei pilastri della legislazione penale fascista del 1930. Il gruppo di studio presieduto da Lattanzi, composto di 15 professori, magistrati e avvocati, ha elaborato in meno di due mesi una relazione molto impegnativa, ove sono in sostanza affrontati gli aspetti più critici del sistema sanzionatorio e del processo penale e vengono proposti i relativi rimedi. La “Commissione per l’efficienza della giustizia” istituita presso il Consiglio d’Europa ha rilevato che in Italia il giudizio di primo grado ha una durata media di tre volte superiore a quella europea, e che la durata dell’appello è addirittura superiore di otto volte. Di fronte a questi dati disastrosi mi limiterò a esaminare alcuni degli strumenti volti a diminuire lo smisurato carico di lavoro che soffoca e paralizza gli uffici giudiziari e per accelerare i tempi del processo. Alcuni rimedi sono da tempo predicati invano dalla dottrina penalistica, altri sono del tutto nuovi.

Tra le finalità deflattive del carico penale inserirei al primo posto l’estensione della perseguibilità a querela ad alcuni reati contro la persona o contro il patrimonio che prevedono una pena superiore nel minimo a due anni, quale ad esempio il furto in un supermercato sanzionato con la pena da tre a dieci anni di reclusione ove ricorrano le aggravanti della violenza sulle cose (rimozione del dispositivo antitaccheggio) e dell’esposizione alla pubblica fede degli oggetti rubati. Del tutto nuova nel nostro ordinamento, ma già sperimentato in forme analoghe in numerosi paesi europei, è l’istituto della c.d. “archiviazione meritata”, consistente nella proposta della persona sottoposta alle indagini, o del pubblico ministero, di subordinare l’archiviazione all’adempimento di una o più prestazioni a favore della persona offesa dal reato o della collettività. Il giudice per le indagini preliminari, valutata la congruità delle prestazioni proposte e la volontarietà del consenso della persona offesa, dispone l’archiviazione per estinzione del reato. Si prevede che l’archiviazione meritata possa operare per reati puniti con la sola pena pecuniaria o con pena detentiva non superiore nel massimo a quattro anni.

Altre misure deflattive si innestano su istituti già presenti nel nostro ordinamento, dei quali viene proposta una più ampia applicazione. È questo il caso dell’esclusione della punibilità per la particolare tenuità del fatto, ora prevista per reati puniti con pena detentiva non superiore nel massimo a cinque anni o con la sola pena pecuniaria. La Relazione Lattanzi propone di estendere l’istituto ai reati per i quali è prevista la pena detentiva non superiore nel minimo – e non più nel massimo – a tre anni, cioè con riferimento anche a reati puniti con pene edittali piuttosto severe. In questo, come in altri istituti, si fa riferimento alla misura minima della pena prevista dalla legge, perché è quella che esprime l’effettiva gravità che il legislatore ha voluto attribuire a quel determinato fatto di reato, posto che il giudice nell’applicare in concreto la pena non può scendere al di sotto del minimo edittale disposto per ciascun reato.
Anche per gli istituti del c.d. patteggiamento, cioè l’applicazione della pena nella misura concordata tra pubblico ministero e imputato, e della sospensione del procedimento con messa alla prova la relazione Lattanzi propone l’estensione delle rispettive sfere di applicazione.

Quanto al patteggiamento, la riduzione della pena, ora prevista nella misura di un terzo, è aumentata sino alla metà; inoltre l’istituto è ammissibile per una serie di gravissimi reati per i quali è attualmente escluso. Quanto alla sospensione del procedimento, che si accompagna a condotte volte a eliminare le conseguenze dannose o pericolose del reato, al risarcimento del danno e a prestazioni di lavoro di pubblica utilità, si propone di estenderne l’applicazione ad altri gravi reati puniti con pena detentiva non superiore nel massimo a dieci anni. Se la prova ha esito positivo la sospensione del procedimento si risolve nell’estinzione del reato.

Ciò che lega tra loro e rende realizzabili questi istituti di favore per gli imputati è l’esistenza di una organica disciplina di giustizia riparativa in favore delle vittime del reato, cioè un sistema a suo tempo definito in una direttiva dell’Unione Europea come “qualsiasi procedimento che permette alla vittima e all’autore del reato di partecipare attivamente, se vi acconsentono liberamente, alla risoluzione delle questioni risultanti dal reato con l’aiuto di un terzo imparziale”. Nell’ottica dell’introduzione di un sistema di giustizia riparativa si muovono appunto i programmi di riforma della giustizia penale della ministra Marta Cartabia e del presidente della commissione di studio Giorgio Lattanzi.