È un po’ stupefacente aver sentito dalla bocca della ministra Cartabia espressioni come i “cosiddetti giustizialisti” e i “cosiddetti garantisti”, nell’incontro con i partiti per la riforma del processo. Stupefacente perché se ci sono due punti costituzionali di non ritorno, sono proprio quelli che attengono alle garanzie, l’articolo 27 sui diritti dell’imputato e il 111 sul diritto al giusto processo. Essere garantisti è prima di tutto un dovere, come fissato nel famoso “lodo Cartabia” dell’ordine del giorno votato all’unanimità dal Parlamento, su iniziativa del ministro guardasigilli, alla fine di febbraio.

Questa premessa può essere un po’ noiosa, ma è indispensabile per capire se il famoso punto d’incontro tra le diverse forze politiche che compongono la maggioranza di sostegno al governo Draghi e che dovrà correre a perdifiato per approvare le indispensabili riforme del processo civile e penale entro il 31 dicembre, sarà inscritto in una cornice di rigore costituzionale o se sarà il solito pasticcio. Per pasticcio si intende per esempio usare la vecchia abitudine del Pd (e di tutti i suoi antenati, dal Pci al Pds ai Ds) di annacquare il rigore dei principi con i “salvo che” che ne vanificano il senso. Un po’ come il famoso “a meno che” dell’articolo 4 della Legge Zan sulla libertà d’opinione. Per pasticcio si intende anche qualunque cedimento al passato che vogliamo sperare superato della legge “spazzacorrotti” e all’abolizione della prescrizione del ministro Bonafede.

Qualche bagliore di semaforo verde in realtà si vede, dalla prima bozza presentata dal presidente emerito della Corte Costituzionale Lattanzi, che la ministra ha voluto alla guida di una commissione speciale di giuristi che sta affiancando il governo nella stesura di una serie di emendamenti, che verranno presentati in commissione giustizia alla Camera, dove si sta discutendo da tempo una proposta di riforma del processo dell’ex ministro Bonafede. Pur non fidandoci dello strillo di Travaglio («La svolta Cartabia è quella di Berlusconi») e del manifesto («Cartabia stravolge Bonafede»), qualche lampo di semaforo verde lo vediamo. Quello più politico, prima di tutto, e che rispecchia un’antica proposta delle Camere penali, e anche di Forza Italia, e che riguarda la necessità che sia il Parlamento a dare ogni anno l’indirizzo delle priorità d’indagine agli uffici requirenti. Non sarebbe una riforma da poco, perché si avvicinerebbe molto a mettere in discussione l’obbligatorietà dell’azione penale.

È sotto gli occhi di tutti, e anche della parte più lungimirante della magistratura, che l’ipocrisia dell’obbligatorietà non potrà durare ancora a lungo, visto che si è ormai trasformata, visto il numero enorme di notizie di reato, nel totale arbitrio delle procure. Un indirizzo generale va dato, anche perché ogni periodo storico può essere diverso da un altro. Così ci sono momenti in cui sia urgente concentrare tutte le forze nella repressione del narcotraffico, così come in altri possa essere utile indagare in via prioritaria su delitti contro la persona, come gli stupri o i femminicidi. Naturalmente a questi provvedimenti dovrebbero accompagnarsene altri come un ampio piano di depenalizzazione, e poi il potenziamento dell’istituto della tenuità del fatto, l’archiviazione condizionata alle condotte di riparazione del danno, l’ampliamento della messa alla prova. Sfrondare, insomma. E magari anche tornare davvero alla notizia di reato, quella che dà il la all’inizio delle indagini, e accantonare il ricorso al “tipo d’autore”, quel meccanismo perverso e spesso frutto di scelte politiche, per cui prima si individua la persona da colpire e poi si cercano gli eventuali reati commessi. O non commessi, possiamo dire, visto il numero elevato di “errori” giudiziari scoperti ogni anno.

Ecco perché è indispensabile dare spazio alle priorità politiche, di cui comunque il Parlamento dovrà rispondere davanti all’elettorato. Ma sarà indispensabile anche un ritorno allo spirito accusatorio della riforma del processo penale del 1989, che prevedeva un ampio ricorso ai riti alternativi al processo. Due sono i punti da riformare, e il lampo verde non potrà limitarsi a uno solo. Il patteggiamento o il ricorso al processo abbreviato dovranno essere resi appetibili per l’imputato, la scelta deve essere conveniente. Bene dunque portare lo sconto di pena da un terzo alla metà. Ma sarebbe opportuno anche portare da cinque anni a dieci il limite di pena prevista per l’applicazione per esempio del patteggiamento. La carne al fuoco è parecchia, e stiamo parlando solo del processo penale. Il cui vero punto critico, e spesso politico, è quello dell’inizio. Non c’è riforma del processo se non vengono fissati termini perentori alla durata delle indagini preliminari. Termini oltre i quali il pm non sarebbe sanzionato, come voleva la mentalità punitiva di Bonafede, sul piano disciplinare, ma semplicemente con la sparizione del fascicolo. Non hai trovato indizi sufficienti in tempo utile? L’inchiesta non c’è più, anche perché forse il reato non è mai esistito. Quanti pm tra i più famosi resterebbero disoccupati…

Siamo così arrivati ai due punti più spinosi, le impugnazioni e la prescrizione. La commissione Lattanzi ha imprevedibilmente ripescato la riforma di Gaetano Pecorella, quella che vietava al pm il ricorso in appello contro le assoluzioni e l’ha raddoppiata, introducendo il divieto anche per le sentenze di primo grado finite con la condanna. C’è però da superare un ostacolo non da poco, perché nel 2006 era stata la Corte Costituzionale a bocciare quella legge, in quanto usava trattamenti dispari tra accusa e difesa. La commissione pensa quindi di introdurre limitazioni al diritto di impugnazione da parte dell’imputato, il che porterebbe la nuova norma totalmente al di fuori di quella cornice costituzionale dei diritti della difesa e creerebbe quel famoso pasticcio dei “salvo che”. E questo renderebbe questa norma assolutamente inaccettabile per le Camere penali, ma anche per una parte delle forze politiche.

Il problema della prescrizione, infine, che prevede due ipotesi ancora aperte, che non cancellano del tutto la legge Bonafede. La prima ipotesi prevede di sospenderne il corso per due anni dopo la sentenza di primo grado e poi ancora di un anno per l’appello e la Cassazione. Se i termini non vengono rispettati la prescrizione riprende dall’inizio. La seconda ipotesi incide direttamente sui tempi del processo e prevede l’improcedibilità se si sforano i 4 anni del primo grado, i 3 dell’appello e i 2 della cassazione. Impossibile per ora poter dare un vero semaforo verde a tutte le questioni tecnico-giuridiche, che sono prima di tutto politiche. Il primo problema, quello vero è: a quali mani il Parlamento affiderà tutto ciò? Prima di tutto ai pubblici ministeri, cioè la casta di coloro che oggi sono nello stesso tempo i più potenti e i meno credibili. E siamo obbligati a dire, perché è vero, che ce ne sono sicuramente moltissimi che sono per bene e che si comportano da tecnici del diritto e non da politicanti da quattro soldi con la toga.

Perché è così che appaiono ormai alla maggioranza dei cittadini. E poi verrà consegnato questo tesoretto di riforme nelle mani dei giudici. Che sono spesso (sempre ricordando che molti sono quelli indipendenti) i complici dei pm, che fanno il copia-incolla delle carte dell’accusa, che spesso a sua volta ha scopiazzato la relazione della polizia giudiziaria. E che poteri avranno i rappresentanti dei cittadini per accertarsi che ci sia un organo superiore e indipendente che terrà d’occhio tutti questi comportamenti, cioè il Consiglio superiore della magistratura? Nessuno, perché il Csm è quel girone d’inferno che ormai tutti hanno imparato a conoscere negli ultimi due anni, dopo le denunce di Luca Palamara. Quindi? Quindi auguri alla ministra Cartabia e alla sua riforma, perché si ricordi che il suo ruolo è politico, prima che tecnico-giuridico. E non si può far finta che non sia così.

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Politica e giornalista italiana è stata deputato della Repubblica Italiana nella XI, XII e XIII legislatura.