L’avvocato siciliano Piero Amara, arrestato per corruzione di giudici, ha patteggiato 2 anni e 8 mesi dopo essere stato a lungo sentito dai magistrati. Viene interrogato nel dicembre 2019 nell’ambito delle indagini sui depistaggi nel processo Eni-Nigeria. In quei verbali Amara parla di relazioni opache all’ombra della politica, che includono richieste di favori da parte di imprenditori e di promozioni da parte di magistrati. Nei verbali “segretati”, cioè non depositati dai pm milanesi in alcun procedimento, c’è anche il nome dell’ex premier Giuseppe Conte, con Amara che rivela di essere membro di una presunta loggia massonica, chiamata ‘Ungheria’, di cui farebbero parte numerose toghe, tra cui il consigliere del Csm Sebastiano Ardita, membro della ‘corrente’ davighiana Autonomia & Indipendenza.

Quei verbali finiscono a fine febbraio scorso a giornali e ad altri magistrati. Nello specifico a due testate che l’anonimo mittente individua come quelle evidentemente più sensibili: al Fatto Quotidiano e a Repubblica. Le direzioni di entrambi i quotidiani si mostrano però tutt’altro che interessate e non pubblicano neanche un cenno al materiale – pur incandescente – che si trovano per le mani. Temono la polpetta avvelenata. Rimettono le carte nel plico e lo consegnano alla Procura, decidendo che della cosa è meglio non parlare.

Le indagini poi andranno avanti, si risalirà al mittente, che peraltro alberga nella segreteria del Csm: le carte sono uscite per mano di Marcella Contrafatto, funzionaria del Csm impiegata nella segreteria dell’allora consigliere Davigo e poi assegnata al consigliere Fulvio Gigliotti, ora indagata per calunnia, perquisita a casa e in ufficio due settimane fa dai pm che nel computer hanno trovato copie degli atti spediti. Contrafatto si è avvalsa della facoltà di non rispondere quando è stata interrogata dalla procura di Roma sulla diffusione dei verbali degli interrogatori resi a suo tempo ai pm di Milano dall’avvocato Amara, ed è stata sospesa dalle sue funzioni dal Csm.

A Repubblica, cui abbiamo chiesto il motivo della decisione auto-censoria, bocche cucite. Il direttore Molinari non ci risponde. Lo fa il suo vice, Dario Cresto-Dina, per rimandare a Liana Milella che del plico dei veleni era diretta destinataria. “Ha già scritto tutto Milella”. Lei parla in pagina: «In quarant’anni di lavoro – scrive Milella – non mi era mai capitato che una fonte, per di più anonima, mi ‘regalasse’ dei verbali. Chiedendomi prima al telefono se volevo riceverli, per scoprire poi le sorprese che contenevano. Per questo, quel 24 febbraio intorno alle 11, quando sul mio cellulare compare uno ‘sconosciuto’, resto sorpresa. È una voce di donna. Ne intuisco un vago accento nordico. Non esito. Sì, rispondo dando il mio indirizzo di casa, ‘mi mandi pure il materiale, lo leggerò con interesse, e valuterò’. La fonte è prodiga, mi garantisce che il primo sarà solo un invio parziale.

Perché di ‘carte da far tremare il Paese’ ce ne potranno essere altre». Ma ricevuto il materiale, decide di non farne niente. «Mi stringo nelle spalle, e vado in procura. Racconto i fatti. Dopo essermi convinta che c’è un solo modo per garantire un’indagine, tenerla riservata. Chi ha inviato i verbali, promettendo di inviarne ancora, non ha lavorato per la giustizia, ma contro la giustizia».

Carlo Bonini, altra firma di punta di Repubblica, di cui è vice direttore, argomenta: «Abbiamo deciso di non pubblicarli per l’evidente opacità della provenienza, per l’assenza di firme su quei verbali e perché facendo questo mestiere da trent’anni, qualche antenna ce l’ho». Anche al Fatto, per una volta, ha regnato la prudenza. Il materiale è stato giudicato inattendibile, ci viene detto. Le accuse che conteneva – il nome di Giuseppe Conte legato ad accordi di potere in salsa massonica – hanno tenuto a freno la tentazione di dare la notizia anche solo riferendo dell’insolito regalo.

Marco Travaglio risponde al Riformista: «Ti pare che pubblico verbali senza firme, senza nemmeno sapere se sono autentici, per giunta pieni di nomi di persone additate come affiliate a una fantomatica loggia criminale, perché qualcuno me li mette nella buca del giornale? Tra l’altro opera di uno che ha già patteggiato per corruzione giudiziaria ed è noto come un depistatore?», controdomanda. E articola: «Non avevamo alcuno strumento nemmeno per sapere se il verbale fosse autentico o un falso a tavolino. Siccome è un reato grave quello di cui ci saremmo resi complici, l’abbiamo denunciato».

Cautele che lo stesso Fatto Quotidiano, a onor del vero, non adotta quando parla Graviano, le cui sparate vengono pubblicate senza troppi timori; e forse Amara è più attendibile di un boss come Graviano.

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Ph.D. in Dottrine politiche, ha iniziato a scrivere per il Riformista nel 2003. Scrive di attualità e politica con interviste e inchieste.