Ieri in Procura a Milano il silenzio era assoluto. Nessuno fra i pm aveva voglia di commentare l’assoluzione di tutti gli indagati eccellenti del processo “Eni-Nigeria”. Quella frase pronunciata il giorno prima dai giudici, “il fatto non sussiste”, ha lasciato il segno. Le indagini, costate milioni di euro – tutti soldi dei contribuenti italiani – fra rogatorie, acquisizione di atti, perizie e consulenze varie, oltre a tre anni di dibattimento e settantaquattro udienze, non erano riuscite infatti a dimostrare che Eni e Shell avessero pagato una tangente di oltre un miliardo di euro ad esponenti del governo nigeriano per l’utilizzo del giacimento petrolifero Opl 245, uno dei più ricchi al mondo.

Il fascicolo, il più importante dai tempi di Mani pulite, era stato assegnato al procuratore aggiunto Fabio De Pasquale, responsabile del dipartimento “reati economici transazionali”, stretto collaboratore del numero uno della Procura milanese, Francesco Greco. Fin dalle prime udienze, però, fra tutti gli addetti ai lavori l’impressione era che il collegio si stesse formando un convincimento difforme rispetto alle valutazioni dei pm che avevano tenuto il punto fino all’ultimo giorno. La Procura milanese è notoriamente progressista. Un “santuario inviolabile” come disse l’ex zar delle nomine Luca Palamara rispondendo a chi gli domandava come mai tutti i procuratori degli ultimi quarant’anni, e la quasi totalità degli aggiunti, fossero sempre stati esponenti di Magistratura democratica, la sinistra giudiziaria.

Il collegio giudicante di “Eni-Nigeria”, presidente Marco Tremolada, a latere Mauro Gallina e Paola Maria Braggion, era composto, invece, da magistrati di area non progressista. Anzi. Gallina è una toga di punta di Magistratura indipendente, il gruppo di “destra”, nel distretto di Milano, e ha ricoperto anche l’incarico di segretario della locale giunta Anm. Braggion, poi sostituita da Alberto Carboni, è ora consigliera del Csm sempre di Magistratura indipendente. La bomba, amplificata dai giornali di riferimento della Procura di Milano, ad iniziare dal Corriere della Sera, sul collegio viene sganciata a dicembre del 2019. La Procura milanese aveva interrogato l’avvocato siciliano Piero Amara, l’ideatore del “Sistema Siracusa”, il sodalizio di magistrati e professionisti finalizzato a pilotare le sentenze al Consiglio di Stato e ad aggiustare i processi nei vari tribunali italiani. Amara è una sorta di Scarantino del terzo millennio: viene chiamato da molte Procure italiane come testimone contro i magistrati. Ad iniziare da Perugia dove è uno dei principali testimoni contro Palamara. Come Scarantino, però, Amara non sempre è affidabile.

A Milano Amara aveva puntato direttamente il presidente del collegio Tremolada con una accusa micidiale che poteva far saltare tutto il processo. Davanti ai pm milanesi racconta, in particolare, di aver saputo dal capo dell’ufficio legale di Eni, l’avvocato Michele Bianco e dall’avvocata Alessandra Geraci, che i due principali difensori del processo, Paola Severino (che assiste Claudio Descalzi), e il legale di Eni Nerio Diodà “avevano accesso” al presidente Tremolada. A fine gennaio 2020 il procuratore Greco con l’altro aggiunto Laura Pedio, in pieno dibattimento Eni-Nigeria, trasmette alla Procura di Brescia, competente per i reati commessi dalle toghe milanesi, il verbale di Amara con la testimonianza esplosiva nei confronti di Tremolada. A Brescia viene subito aperto un fascicolo, a carico di ignoti, per traffico di influenze illecite e abuso d’ufficio.

De Pasquale, omissando parte del verbale di Amara, tenterà di produrlo all’udienza del 15 febbraio senza riuscirci. Bianco e Geraci nel frattempo sono ascoltati a Brescia e negano di aver mai detto nulla di ciò ad Amara. L’avvocato siciliano non viene indagato per calunnia, come ci si sarebbe aspettato, in quanto la sua deposizione, ritenuta fondamentale dalla Procura di Milano, sarebbe stata alquanto generica. Il gip di Brescia, su richiesta dei pm, archivierà allora il 24 dicembre dello scorso anno. Ma che la credibilità di Amara sia quasi sempre pari a zero lo aveva evidenziato nel gennaio 2019 l’allora pm romano Stefano Rocco Fava. L’autore del celebre esposto contro Giuseppe Pignatone.

Il magistrato, che lo stava indagando da tempo per bancarotta e altri reati, aveva chiesto per lui la custodia cautelare, evidenziando come fosse stato reticente in più occasioni nei suoi rapporti proprio con Eni. Arrestato la prima volta a febbraio del 2018, Amara aveva ricevuto a maggio successivo da Eni 25 milioni. Una circostanza sospetta per Fava. Di diverso avviso i suoi colleghi, ad iniziare dal procuratore aggiunto Paolo Ielo che aveva deciso di non procedere con la cattura, ritenendo fosse un atto che “indeboliva” le indagini. Fava sarà poi estromesso dalle indagini nei confronti di Amara.