È casuale, ma è anche da brividi, sentire nell’aula il pubblico ministero Fabio De Pasquale chiedere condanne per i dirigenti dell’Eni proprio nell’anniversario, il 20 luglio 1993, del giorno in cui si suicidò nel carcere di San Vittore il presidente dell’Eni Gabriele Cagliari. Anche allora il pm era De Pasquale, che aveva interrogato cinque giorni prima il detenuto, lasciando intendere di essere disponibile alla sua scarcerazione, ma poi cambiando idea. Come è finita, fa parte della storia più tragica del nostro Paese. Sono passati 27 anni e ritroviamo il dottor De Pasquale ancora pubblico accusatore in un processo che riguarda Eni, ancora a dissertare di tangenti, ancora a sospettare fatti di corruzione. E a sparare (verbo quanto mai appropriato, vista l’entità degli anni di carcere richiesti) te di pena che forse lui stesso mai avrebbe ipotizzato se avesse trovato sul banco degli imputati un paio di rapinatori. Tanti anni di galera e tanto denaro da confiscare.

Le manette, prima di tutto. Otto anni di carcere per l’amministratore delegato di Eni Claudio Descalzi e per il suo predecessore Paolo Scaroni, oggi presidente del Milan. Pene leggermente inferiori per intermediari e funzionari, dieci anni per colui che, qualora processato e condannato, mai li sconterà, cioè l’ex ministro del petrolio nigeriano Dan Etete. E’ una storia di petrolio, per l’appunto, quella che aveva consentito nel 2011 a Eni e Shell di aggiudicarsi il diritto di esplorazione sul più grande giacimento nigeriano, l’OPl 245, con un pagamento di un miliardo e 92 milioni di dollari. Un contratto? No, una maxitangente, dice la procura. Il denaro era stato versato su un conto londinese del governo nigeriano. Di quel che successe in seguito, Eni e Shell dicono di essersi disinteressati, non era certo un loro problema andare a seguire il flusso del denaro fino all’ultimo rivolo. Ma rivoli ci furono, a quanto pare. Con un primo passaggio dal conto del governo nigeriano (che si è costituito parte civile nel processo) a una società riferibile all’ex ministro Etete, e poi giù giù per li rami, fino a (forse, ma non pare ci siano prove) rimbalzare in parte in Italia.

Se quel miliardo e rotti era una maxitangente, è il ragionamento della procura di Milano, la punizione deve essere esemplare non solo con il carcere delle persone fisiche che in questi anni hanno diretto Eni e Shell, ma anche con un consistente spolpamento economico delle due società, sanzionate con la richiesta di versamento di 900.000 euro a testa. Inoltre, un gesto anche simbolico, quasi con il sapore della vendetta: confisca per equivalente dell’intera cifra del versamento, un miliardo e 92 milioni di dollari. Richieste sconcertanti quelle del pubblico ministero De Pasquale. Ma ormai il clima, negli ambienti giudiziari come in quelli governativi, è quello che è. E ricorda molto quello dei primi anni novanta. Sempre di più si ha la sensazione che un certo moralismo influenzi le istituzioni, tanto da aver indotto il ministro della giustizia a definire “spazzacorrotti” una legge che inasprisce le pene per i reati contro la Pubblica Amministrazione. Ma non tutte le ciambelle riescono con il buco, e non tutta la magistratura è composta di pubblici ministeri. C’è ancora qualche giudice che decide in autonomia. Infatti proprio a Milano, e proprio quest’anno, nel mese di gennaio, la corte d’appello ha mandato assolti proprio Paolo Scaroni e la compagnia petrolifera italiana nel caso Saipem-Algeria su una presunta maxitangente algerina da 197 milioni di dollari.

Maxitangente che non c’è mai stata, hanno stabilito i giudici, non c’è stato passaggio di denaro, né mazzette a pubblici funzionari algerini né alcuna mancia da parte di Saipem nel 2008 al ministro algerino dell’energia. Così in secondo grado sono stati assolti anche i dirigenti di Saipem che, al contrario di Scaroni e degli uomini Eni che erano già stati scagionati, avevano subito una condanna nel primo processo. Tutto ribaltato dalla seconda corte d’appello, che aveva anche respinto il ricorso del pm sull’assoluzione di Eni. Ogni tanto c’è un giudice non solo a Berlino, ma persino a Milano.

Quel che ci si domanda però è se per avere giustizia si deve sempre aspettare il dibattimento, spesso in secondo grado o addirittura in cassazione, in questo tipo di processi con ipotesi accusatorie accompagnate, come dice oggi un comunicato della dirigenza Eni, da “suggestioni e deduzioni” che, aggiungono, spesso prevalgono su prove documentali e testimoniali. Non sarebbe ora che i gip ricordassero di essere giudici e non succursali dei pubblici ministeri? Senza avere la sfera di cristallo, ma solo un po’ di esperienza di aule giudiziarie, possiamo prevedere che anche per la “maxitangente” nigeriana si arriverà prima o poi a una sentenza simile a quella algerina. Ma il problema sono anche i tempi. In settembre parleranno le parti civili, poi le difese degli imputati. Poi si vedrà. In fondo sono solo passati nove anni.

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Politica e giornalista italiana è stata deputato della Repubblica Italiana nella XI, XII e XIII legislatura.