«Per le ragioni che sapete abbiamo una certa urgenza», scrive, il 7 marzo del 2019, la pm di Perugia Gemma Miliani all’allora capitano del Gico della guardia di finanza, Fabio Di Bella. «Le chiedo – aggiunge la pm che sta indagando su Luca Palamara – di raccomandare a Rcs solerte sollecitudine (scritto in grassetto, ndr) nell’effettuare la valutazione di fattibilità». L’ordine categorico si riferisce allo studio di fattibilità delle intercettazioni telematiche mediante il “trojan” che la pm vuole installare nel cellulare dell’ex zar delle nomine, in quello degli avvocati Piero Amara e Giuseppe Calafiore, e del magistrato Giancarlo Longo.

Ad effettuare questo studio è la Rcs, società milanese leader nelle intercettazioni telefoniche che ha progettato uno dei primi software spia. I quattro sono in quel momento oggetto di intercettazioni telefoniche tradizionali. Amara, Calafiore e Longo, arrestati nel febbraio del 2018 su richiesta delle Procure di Roma e Messina per frode fiscale e corruzione in atti giudiziari, erano il perno del sistema Siracusa, il sodalizio finalizzato a condizionare l’esito di procedimenti penali e amministrativi al tar ed al Consiglio di Stato. Dopo essere tornati in libertà, all’inizio del 2019 la Procura di Perugia aveva ipotizzato nei loro confronti l’accusa di aver corrotto Palamara, quando era al Csm, per ottenere nomine di magistrati compiacenti.

La Rcs aveva fornito agli investigatori un pacchetto di opzioni di tutto interesse. Con il trojan, infatti, sarebbe stato possibile avere informazioni di ogni tipo: dalle “abitudini di navigazione”, alle “app installate”. Inoltre era possibile avere il “tabulato delle chiamate whatsapp” effettuate, riuscendo anche a conoscere eventuali metodi di comunicazione non noti. E poi c’era la temibile funzione “screenshot”. Il trojan, effettuando periodicamente degli screenshot era in grado di “leggere” qualsiasi tipo di chat, da Whatsapp a Telegram, rendendo così vano l’eventuale tentativo di non lasciare traccia della comunicazione “cancellando” il messaggio inviato. In caso di Android, addirittura, con il trojan era possibile programmare l’accensione della fotocamera, sia quella posteriore che quella anteriore. Per avere accesso a tutte queste prelibatezze investigative sarebbe però stato necessario infettare il cellulare, una operazione che si poteva tentare da remoto con la richiesta di aggiornare delle configurazioni di sistema o di installare una app.
Le conseguenze della micidiale potenzialità del trojan sono ben note.

Inserito nel cellulare di Palamara ha fatto saltare la nomina del procuratore generale di Firenze Marcello Viola a Procuratore di Roma, ribaltando poi i rapporti di forza al Csm. Lo studio di fattibilità era stato positivo per Longo, Amara e Calafiore. I tre era risultati molto loquaci al telefono. Amara, in particolare, in 20 giorni di ascolti aveva fatto segnare 335 captazioni, di cui 169 con familiari e 22 con i suoi avvocati. Per quale motivo, dunque, il trojan venne poi installato solo nel cellulare di Palamara? Cantone pare abbia affermato davanti alla Prima Commissione del Csm che i tre che erano particolarmente attenti.

Ma l’eventuale “attenzione” era facilmente aggirabile con la complicità del gestore telefonico. Nel caso di Palamara, infatti, venne effettuato il blocco del cellulare, costringendo il magistrato a una procedura di ripristino che permise così l’istallazione del trojan. In tutto ciò spicca, comunque, l’assenza di Fabrizio Centofanti, il faccendiere che secondo l’accusa dei pm di Perugia sarebbe stato fra i corruttori di Palamara e che quest’ultimo aveva presentato anche a Giuseppe Pignatone. Circostanza questa confermata dallo stesso ex procuratore di Roma. «Centofanti non era facilmente intercettabile in quanto abituato a parlare in codice, a non fare nomi e ad alzare il volume della radio se era in auto», avrebbe detto sempre Cantone. Ma di lui nello studio di fattibilità non c’è traccia. Misteri su misteri.