«Che cosa vuol dire? Allora, Palamara, ci dica cosa vuol dire, che il Gico (della guardia di finanza, ndr) ascoltava e riferiva le notizie?». La domanda, diretta e senza tanti giri di parole, è stata formulata dalla pm di Perugia Gemma Miliani lo scorso 29 luglio all’ex zar delle nomine al Consiglio superiore della magistratura.

L’indagine nell’ambito della quale Palamara viene interrogato non è quella per corruzione ma per rivelazione del segreto d’ufficio a proposito di due articoli pubblicati a maggio dell’anno prima dal Fatto e dalla Verità. “Esposto bomba al Csm: Incarichi ai fratelli di Pignatone e Ielo”, il titolo del pezzo del Fatto. “Sotto inchiesta al Csm l’ex capo dei pm di Roma e il suo aggiunto: Esposto al Csm su Pignatone e Ielo, affari fra indagati e i loro fratelli”, quello della Verità. Secondo i pm di Perugia, Palamara, in concorso con il collega pm Stefano Rocco Fava, «in data antecedente e prossima al 29 maggio 2019 (giorno di uscita dei due articoli, ndr)», avrebbe rivelato ai giornalisti del Fatto e della Verità alcune informazioni relative alle pendenze penali dell’avvocato Piero Amara, uno dei principali protagonisti del cosiddetto “Sistema Siracusa”, il sodalizio di magistrati e professionisti finalizzato a pilotare le sentenze al Consiglio di Stato e ad aggiustare i processi.

Amara, in particolare, già avvocato dell’Eni, era stato indagato a Roma per bancarotta e frode fiscale. Fava, all’epoca in forza al dipartimento reati contro la Pa, coordinato dall’aggiunto Paolo Ielo, aveva chiesto per lui la custodia cautelare in carcere. Il procuratore Giuseppe Pignatone non aveva voluto, però, apporre il visto. A questo punto, secondo l’accusa, i due magistrati avrebbero avviato una “campagna mediatica” contro Pignatone, che era da poco andato in pensione per raggiunti limiti di età, e contro Ielo. Fava, poi, aveva presentato un esposto al Csm evidenziando mancate astensioni in alcuni fascicoli da parte di Pignatone e Ielo. Questa indagine, a differenza di quella per corruzione, era stata affidata ai carabinieri. Durante l’interrogatorio emergono tutte le perplessità di Palamara. Il magistrato a maggio del 2019 sospetta di essere ascoltato. Cosa che in effetti sta avvenendo. E racconta il clima di quei giorni a piazzale Clodio.

«Quando vedi ti evita qualcuno è chiaro …. no?», esordisce: «Inizi a dire: ‘Non va’. «E poi anche i discorsi che facevano», prosegue. Palamara cita, allora, il caso di un famoso giornalista di giudiziaria del Corriere della Sera che aveva un’ottima entratura nella Procura di Roma, a iniziare da Pignatone. Il giornalista, parlando con Palamara, dice che Viola (Marcello, procuratore generale di Firenze, fra i candidati al posto di procuratore di Roma, “non è colluso”.

«Il problema non è che Viola è colluso ma che l’ufficio non lo vuole, che cosa capisco?», si domanda Palamara. Che si risponde: «Che c’è qualcuno che mi sta ascoltando e che riferisce notizie sul fatto che noi stiamo andando su Viola, già dal 7 maggio e qual è la parte dell’ufficio che non lo vuole? È la parte dell’ufficio con la quale io ho parlato», puntualizza.

«Inizio a capire che c’è qualcosa che non va», ripete ancora una volta. La pm Miliani, a questo punto, chiede da chi avesse le notizie e se fosse il Gico, che stava indagando su delega dei pm di Perugia, a dare notizie ai suoi colleghi romani. Palamara, non avendo prove non rischia la calunnia e nega. Ma aggiunge: «L’ufficio non vuole: gli Albamonte (Eugenio, ndr), i Palazzi (Mario, ndr), tutta la parte di Area, lo stesso Pignatone, perché? Perché volevano Lo Voi». «Io vorrei che lei cogliesse l’inferno che abbiamo vissuto», dice allora alla pm Miliani. «Perché io mi dovevo fare gli affari miei… perché a me se veniva Franco Lo Voi, tanto per essere chiari, era molto meglio, punto, fine e vivo in pace pure». «Mi assumo la responsabilità, ero vissuto in pace se avessi detto sì a Franco Lo Voi e facevo prima e invece mi sono incaponito con questa storia di Viola». Quello che è successo dopo è noto.