Una svolta antipopulista.
La prima riflessione che sorge spontanea è che nel pianeta Giustizia qualcosa è cambiato dopo le due ultime esperienze governative e con la nascita del Governo Draghi. Saranno i tecnici che hanno fatto la differenza, ma ora si ricomincia a parlare di diritto, a costruire diritto dentro alle leggi, e gli stili gridati e irrazionali del punitivismo giustizialista sembrano così distanti che quasi si stenta a credere che le forze politiche che sostengono l’attuale Consiglio dei Ministri siano le stesse dell’ultimo triennio. Qualcuno si è addirittura proclamato giustizialista pentito. Con il coro compiaciuto della gran parte del giornalismo nazionale, il cui apparente “descrittivismo” ha sostenuto tutte le peggiori stagioni del penalismo etico. In questo momento di svolta, la gravissima crisi della politica, commissariata in questa compagine ministeriale, potrebbe sancire davvero un diverso modo di affrontare il tema della Giustizia, senza ricadere rovinosamente nel passato, non appena sarà finito il mandato (politico, ma non rappresentativo) del suo tutore. È questo l’obiettivo che dovremmo tutti desiderare con forza.

Il ruolo dei tecnici
Anche alcuni professori e qualche esperto magistrato hanno recuperato un ruolo che era di fatto smarrito. I tecnici ricevono la loro investitura nelle forme dell’aristocrazia sapiente, per lo più sottratta all’agone del dibattito di piazza, e i media ritrovano ora antiche parole per dirlo. Ci vorrebbe Stendhal per raccontarli. Il mandato della Commissione ministeriale per la riforma del processo penale nasce sotto la pressione europea di un finanziamento ingente. Viene presentato come spinta temporale ad agire in ordine a tutti i temi contenuti nel progetto. Ma è ovvio che non sia così. Altrettanto ovvia è la natura politica delle scelte della Commissione. Positivamente politica, ma non neutra, come qualcuno potrebbe voler far credere.

Il motivo dominante, il collante di tutte le singole norme, è quello dei tempi del processo e della sua efficienza. Avere collegato una parte della “riforma della Giustizia penale” al recovery plan rischia di subordinarla all’economia. Tutti intuiamo il vero e il non detto di questa liaison dangereuse. Non stiamo parlando del diritto penale commerciale, dell’impresa, delle società, delle assicurazioni, delle banche, etc., ma di quello penale in generale, che si riflette sicuramente anche sul diritto penale dei settori più specifici menzionati, tuttavia assai meno centrali nella risposta punitiva ordinaria dei processi che si celebrano quotidianamente e appesantiscono l’azione giudiziaria.

I tecnici lo sanno bene, così come dovrebbero sapere che non basta cambiare le regole per riformare le istituzioni, la mentalità e le consuetudini degli attori del processo, e questa riserva di giudizio, soggetta ad altre variabili indipendenti, dovrà essere ripresa valutando la prognosi realistica della riduzione dei tempi che la Commissione si prefigge. Nonostante tutti questi caveat, i tratti del disegno sono largamente positivi e la Commissione ha svolto in modo eccellente il compito assegnato.

Aspetti centrali di profonda innovazione
Ci sono regole profondamente innovative nel progetto, capaci da sole di trasformare la natura violenta di un processo troppo appiattito sui poteri dell’accusa nel corso delle indagini e fino al rinvio a giudizio: la regola del rinvio a giudizio, per il pm e per il giudice, diventa quella della probabilità della condanna (esclusa quando “gli elementi acquisiti non sono tali da determinare la condanna”). Cambia tutto nei processi con udienza preliminare (che diminuiscono, perché in caso di giudice monocratico la citazione è sempre diretta), ma nella gran massa delle citazioni dirette sarà sempre l’accusa a decidere, e dunque è il suo ruolo che dovrà essere meglio ripensato, perché ha davanti a sé strategie assai differenziate negli esiti già in primo grado.

La sospensione del processo con messa alla prova si estende ai reati fino a 10 anni di reclusione (pur se selezionati), si introduce una archiviazione meritata che ne allarga molto gli spazi a forme di contrattazione e a ipotesi riparatorie anticipate. Si riformano tutte le sanzioni sostitutive, sempre più extracarcerarie, potenziando l’effettività, ma anche l’uso, della pena pecuniaria commisurata per tassi e dunque non diseguale sul piano sociale; si allarga l’applicazione di quelle alternative alla detenzione con competenza dello stesso giudice di merito: così responsabilizzando quest’ultimo nella definizione della pena ‘reale’; si estendono le ipotesi di estinzione del reato per tenuità del fatto ai reati puniti con pene non superiori nel minimo a 3 anni, ampliando il giudizio sulla esiguità anche alle offese tenui per effetto di condotte susseguenti; si allargano molto i casi di giustizia riparativa, che vuole essere, pur nella sua declinazione tradizionale legata ai reati con vittime reali (ma sono moltissimi quelli a vittima indeterminata), un momento di forza del progetto.

Eppure, il patteggiamento allargato fino alla metà della pena in concreto, con estensione a pene accessorie e confische, ed eliminazione di effetti extrapenali, potrebbe incentivare il delitto, senza riparare affatto la vittima, in assenza di correttivi o prassi sorvegliate. Si diversificano i criteri di priorità tra una selezione a livello parlamentare e una di competenza degli uffici giudiziari, innescando un meccanismo di possibile (non certa) flessibilizzazione dell’azione penale: se tutto diventasse urgente, tra istanze generali e locali, saremmo punto e a capo, e dunque il problema resta quello di una vera cultura della discrezionalità. È chiaro che di fronte a queste diverse strategie sanzionatorie di sistema anche il pubblico ministero comincia ad avere davanti a sé un ventaglio di ipotesi che lo corresponsabilizzano ben oltre la richiesta di una pena detentiva, come fino a oggi è stato. La sua azione è assai più discrezionale, non tanto per i criteri di priorità allargati, ma per le scelte differenziate “di politica criminale applicata” che la riforma adotta e impone.

Sono nuove strategie di diritto sostanziale che non potranno peraltro ridurre il carico processuale in modo rilevante: alcune non sono affatto pensate per questo e non lo devono essere, per non appiattire sul mero utilitarismo la giustizia penale. E l’eterna velocità onnipresente? La futuristica visione del presto e bene nel definire centinaia di migliaia di processi per migliaia di fattispecie? Il Gup selezionerà un po’, ma i grandi numeri passeranno ancora dalla citazione diretta, che ne risulta potenziata. È nei gradi successivi che si vuole incidere: appello con rito camerale, salvo richieste; molte inappellabilità; trasformazione dell’appello in impugnazione a critica vincolata; Cassazione senza difensori, salva richiesta.

Certo, il disegno parte dagli effetti, dal blocco processuale in atto, e di fronte all’inflazione, sostanziale prima e processuale poi, si introducono tanti meccanismi acceleratori o di depenalizzazione in concreto. Invece il progetto non parte dal sistema dei reati, che non era nel mandato: neanche un reato viene abolito (depenalizzazione), neppure temporaneamente (amnistia). E l’obbligatorietà dell’azione penale resta solo un po’ temperata.

Bilancio provvisorio
Gli aedi del progetto ci dicono che contano di ridurre di un quarto la durata dei processi penali. È già tanto. Ma tutto questo, se vera la prognosi, non basterà. La riforma della Giustizia penale deve partire dalle cause, non dagli effetti: incidere sul processo come meccanismo normato e sulle sanzioni significa operare ancora a valle del problema, perché ci sono nodi di diritto sostanziale e di cultura della strategia sanzionatoria e non di solo rito, all’origine del male. Non parliamo, ora, del voler trapiantare in Italy (è l’ipotesi b della riforma della prescrizione) il modello americano della prescrizione dell’azione sostitutiva di fatto di quella sostanziale bloccata al primo grado: un pastiche che non merita neppure il rinvio alla prossima legislatura.

La via maestra verso l’obiettivo, osservando le cause, anziché i loro effetti, non è una riforma processualservente, ma è quella che passa attraverso più depenalizzazioni, più discrezionalità già nell’esercizio dell’azione e una base di partenza alleggerita da un passato che proprio le forze politiche oggi presenti in Parlamento dovrebbero cercare di superare: un provvedimento di amnistia, che ovviamente selezioni le fattispecie politicamente non meritevoli di estinzione (Il Riformista, 23 febbraio 2021). È la base più ragionevole per liberare le udienze orientandole verso un impegno collettivo rinnovato da una pax iustitialis che segua allo scempio delle stagioni del giustizialismo contro il garantismo, e dove il penale non sia più visto come l’inferno dantesco, ma come dev’essere, cioè una strategia differenziata di intervento sociale.

Una amnistia una tantum non indebolisce il sistema della prevenzione. Invece, con un patteggiamento al 50%, a regime e senza confisca del profitto da restituire alla vittima – il delitto riparato è anche questo – e tante pur giuste alternative al carcere, una bella rapina la si può anche programmare. Ma anche un abuso di mercato. Alla vittima privata non resterebbe che confidare nel perdono della mediazione penale. È questo il tema, di una più ampia strategia di riparazione dell’offesa e della pena agìta, che la giustizia riparativa tradizionale affiorante nel progetto non ha ancora adeguatamente tematizzato e rimette ora alla discrezionalità del pm o del giudice.