Sono trascorsi moltissimi anni dall’ultima volta che la nomina di un ministro della Giustizia ha suscitato tante speranze tra gli avvocati, in particolare, tra i penalisti. È inutile negarlo: una parte di questo entusiasmo è determinata anche dal fatto che gli ultimi due anni e mezzo sono stati caratterizzati da provvedimenti, dichiarazioni, visioni distopiche che hanno messo a dura prova non soltanto il funzionamento della giustizia, ma l’idea stessa dello Stato di diritto.
È pleonastico ribadire le sciagurate riforme che sono state ideate e realizzate negli ultimi 30 mesi: quella della prescrizione, la cosiddetta Spazzacorrotti quantomeno prima dell’intervento della Corte Costituzionale, il divieto di giudizio abbreviato per i reati puniti con l’ergastolo, i decreti Sicurezza che hanno inciso fortemente su diritti e libertà di specifici soggetti. Oltre i provvedimenti legislativi, l’idea liberale della giustizia è stata offuscata e talvolta fortemente lesionata da comportamenti, dichiarazioni e omissioni che ci hanno fatto a lungo temere che ci si fosse avviati verso una spirale senza ritorno, cioè alla definitiva teorizzazione e applicazione del populismo giudiziario che considera il diritto e la sanzione penale come meri esercizi di vendetta.
Ma le speranze suscitate dalla nomina di Marta Cartabia non dipendono esclusivamente dal raffronto con il recentissimo passato. L’attuale ministra – oltre una straordinaria competenza nella materia – è portatrice di un’idea di giustizia che presenta notevoli e numerosi punti di contatto con la visione di cui noi avvocati penalisti siamo da sempre fautori.  Ci sono – e ci saranno – delle differenze di vedute e forse anche di sensibilità su alcuni temi, ma finalmente, abbiamo la serena convinzione di muoverci all’interno di un medesimo perimetro di regole e valori condivisi.

Non ci aspettiamo “miracoli” né abbiamo l’ingenuità di credere che d’emblée saranno azzerate tutte le strampalate riforme degli ultimi anni. La maggioranza politica che sostiene il governo Draghi è, infatti, forse troppo composita e variopinta per mettere mano in maniera sistematica a riforme relative a temi “caldi” e sensibili. Ma di due cose siamo certi: la sensibilità e le competenze di Cartabia produrranno sicuramente dei seri interventi sul carcere e sull’esecuzione della pena che è, senz’altro, il settore più disastrato della giustizia penale; la narrazione negli ultimi anni dominante – incentrata sul più carcere, più pena, sulla vendetta pubblica, sui corpi e le anime da far “marcire” in galera – subirà una sensibile battuta di arresto e si tornerà a ragionare in termini di funzione rieducativa della pena e di extrema ratio del diritto penale.

Del resto, solo l’applicazione di un diritto penale che disciplini e sanzioni esclusivamente le condotte che ledono o mettono in pericolo il patto sociale, potrà porre rimedio all’altro gravissimo problema che funesta la giustizia penale: la durata elefantiaca dei procedimenti penali che si traduce in denegata giustizia oppure in pene irrazionali che mortificano ogni esigenza di rieducazione. E tutto questo non è poco perché solo destrutturando progressivamente, in primis dal punto di vista culturale, i capisaldi del populismo penale sarà possibile tendere a una giustizia penale realmente rispettosa del dettato costituzionale.

Proprio in ragione delle eccellenti qualità umane e professionali di Cartabia e nella sicura consapevolezza di una sensibilità comune in relazione ai temi di maggior rilievo, ci permettiamo di rivolgere un appello alla ministra e cioè di dedicare una parte rilevante del suo programma di governo e delle risorse al carcere e ai Tribunali di Sorveglianza. L’appello parte da Napoli – è non è un caso – poiché nella nostra città il problema della detenzione non riguarda solo un’esigua minoranza e gli addetti ai lavori, ma è un tema che direttamente o indirettamente coinvolge una parte non irrilevante della popolazione. Occorre riportare al centro dell’attenzione il settore più ignorato della giustizia penale e cioè quello dell’esecuzione della pena. Settore che, anche a causa dell’emergenza pandemica, rischia il definitivo tracollo. In questi mesi, il Tribunale di Sorveglianza di Napoli sta letteralmente affogando, non essendo nelle condizioni di rispondere alle numerosissime e legittime richieste provenienti dai detenuti.

In un passato neanche troppo lontano si auspicava – in quanto peraltro previsto dalla legge – un magistrato di sorveglianza presente nelle carceri che controllasse adeguatamente il rispetto dei diritti umani nelle concrete modalità di espiazione della pena. Oggi tutto questo appare come una chimera, non essendo possibile per il magistrato neppure svolgere adeguatamente la funzione giurisdizionale in senso stretto. Questo sfascio non è casuale ma frutto di un cinico calcolo politico. In presenza di risorse insufficienti si è deciso di tagliare soprattutto nel settore più debole, quello di chi non ha voce, di chi non ha protettori e semplicemente non produce consenso. E allora rivolgiamo un appello affinchè, nell’ipotesi in cui dovessero essere effettivamente stanziate per la giustizia ingenti nuove risorse provenienti dal Recovery Plan, una parte considerevole di tali risorse sia destinata all’Ufficio e al Tribunale di Sorveglianza, settore ormai allo stremo.

In questo momento – anche a causa dell’emergenza sanitaria – il carcere è esclusivamente un reclusorio in cui sono sospese quasi tutte le attività. Dunque, di fatto, un luogo in cui si abdica a ogni finalità rieducativa e si privilegia esclusivamente – e in maniera miope – quella di prevenzione (se non addirittura quella meramente retributiva). Una pena congegnata in questo modo è tecnicamente illegale e impone immediati interventi da parte dello Stato che ha un obbligo di lealtà nei confronti di tutti i cittadini (in particolare, nei confronti dei reclusi).

La soluzione non può che essere quella di dar vita, attraverso un ampio ricorso alle misure alternative – e con l’auspicio che si possa tornare a ragionare con serenità di provvedimenti di clemenza quali amnistia e indulto – a una sostanziale diminuzione della popolazione carceraria che crediamo possa essere una delle missioni principali della politica giudiziaria del nuovo Governo. Lo abbiamo detto in premessa: non ci aspettiamo “rivoluzioni” nel campo della giustizia penale, anche perché probabilmente il quadro politico attuale non lo consente. Siamo, tuttavia, certi che – anche grazie alla nuova ministra – sarà possibile abbandonare il percorso intrapreso negli ultimi anni e iniziare a tracciare nuove rotte, con l’obiettivo ultimo di riportare il cittadino al centro di ogni discorso o riforma sulla giustizia.

Marco Campora, Valerio Esposito

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