La contesa di Via Arenula
Governo Draghi, alla Giustizia è ballottaggio tra Severino e Cartabia

Il prossimo guardasigilli potrebbe essere una donna. E potrebbe essere una delle due che hanno già tagliato per prime un traguardo di quelli che erano sempre stati riservati agli uomini. Una è stata la prima donna Presidente della Corte Costituzionale. L’altra la prima donna ministro della giustizia. Ma sono conosciute e ricordate, finora, per qualcosa che hanno fatto, di cui hanno lasciato vistosa traccia. Marta Cartabia ha aperto una finestra di speranza ai detenuti, sia con le visite in carcere che con una famosa sentenza del 2019 che ha rotto il dogma per cui tutti i detenuti sono irrecuperabili tranne i “pentiti”.
Paola Severino, resa nota da una legge del 2012 che porta il suo nome, ha fatto il percorso inverso, dando legittimità a norme che prevedono la cacciata degli eletti dagli organi elettivi, parlamento o enti locali, sulla base di azioni giudiziarie, a prescindere dalla volontà popolare di chi aveva infilato una scheda nell’urna. Una ha cercato di dare più libertà, l’altra di toglierla. Queste due insigni giuriste si trovano oggi, loro malgrado, in una sorta di gioco a “guardie e ladri”. Perché la giustizia in Italia pare sempre una questione di Guardie e Ladri.
Il che non significa che qualcuno è dalla parte della legalità e qualcun altro da quella della violazione delle leggi penali. È un modo diverso di dare priorità ai diritti piuttosto che alla sicurezza, alla laicità dello Stato piuttosto che a una visione moralistica e vendicativa rispetto ai comportamenti umani. In particolare di quelli che si inscrivono in fenomeni trasgressivi come le mafie e il terrorismo o addirittura nel mondo della politica e della pubblica amministrazione.
È su questo crinale che si incontrano le vite professionali di Marta Cartabia e Paola Severino, la costituzionalista lombarda allieva di Valerio Onida all’università degli studi di Milano e la penalista e criminologa di origine napoletana che si è laureata a Roma con Giovanni Maria Flick, che sarà come lei ministro di giustizia. Sono due prime della classe, pur senza avere, nessuna delle due, la spocchietta che a volte rende antipatici quelli che sorpassano gli altri. Sarebbero due ministre adeguate a quel che serve nel prossimo governo Draghi dopo la caduta di Conte sulla giustizia?
È vero che per surclassare Alfonso Bonafede basterebbe uno studente del primo anno di giurisprudenza. Ma non basta, perché dal guardasigilli che gli succederà noi ci aspettiamo anche un bravo muratore che sappia buttar giù prima di lasciar spazio alla propria creatività. E, ma forse chiediamo troppo, la prima legge da ridiscutere dovrebbe essere proprio quella che viene chiamata “Legge Severino”, quella che fu approvata con entusiasmo dall’intero Parlamento, in cui entrò tranquillamente come il coltello nel burro, tanto che le Camere diedero al governo Monti una sorta di delega in bianco.
Perché l’avvocato Paola Severino e prima di lei l’avvocato Angelino Alfano, ministro nell’ultimo governo Berlusconi, si siano fatti promotori di una legge così palesemente intrisa di moralismo e disprezzo per gli eletti dal popolo, così di sapore grillino, quasi un antipasto della “spazzacorrotti” prodotta in seguito da Bonafede, è incomprensibile da parte di due studiosi del diritto. Soprattutto per due aspetti di particolare gravità, l’ingiustizia della sospensione e poi decadenza degli amministratori locali solo per una sentenza di condanna di primo grado, mentre per i parlamentari la decadenza è legata alla condanna definitiva.
E poi per il profilo di incostituzionalità, visto che l’articolo 25 della Carta fondamentale sancisce che nessuno possa esser condannato sulla base di una norma che non esisteva al momento della commissione del reato. Se ne è discusso a lungo, dopo la condanna di Silvio Berlusconi a quattro anni di carcere, quando diversi costituzionalisti ne avevano invocato l’incongruenza con l’articolo 25. Una decisione politica, in cui fu determinante l’indirizzo del segretario del Pd Matteo Renzi, comportò poi l’espulsione di Berlusconi dal Senato e la vanificazione del voto popolare in cui il leader di Forza Italia era risultato il primo assoluto.
Ma ancora più sconcertanti furono diversi casi negli Enti locali, dove diversi consiglieri, incappati in inchieste giudiziarie più o meno fondate, furono sospesi per i diciotto mesi previsti dalla legge, quindi sostituiti dai primi dei non eletti, costretti poi a tornare a casa in attesa di un processo e di una sentenza. Basta un giudizio di condanna in primo grado per determinare l’espulsione anche di qualcuno che sarà poi assolto in appello o in cassazione. Il caso più clamoroso resta comunque quello della Regione Calabria, dove il presidente di centro-destra Beppe Scopelliti, condannato per abuso in atti d’ufficio e falso, fu sospeso e poi dichiarato decaduto, determinando lo scioglimento della giunta, nuove elezioni e la vittoria del centro-sinistra con Mario Oliverio. Il quale a sua volta subì una sorta di nemesi storica, salvo esser poi assolto un anno dopo.
Ora, la domanda è: può l’ex ministra del governo Monti, con alle spalle questa legge che porta il suo nome, ereditare il posto di Alfonso Bonafede sulle macerie di un governo precipitato proprio sulla giustizia e proprio a causa di leggi come quella sulla prescrizione e la “spazzacorrotti” che sono le eredi della “Severino”? Se il presidente incaricato Mario Draghi facesse questa scelta, non solo potrebbe trovare qualche ostacolo in particolare in Forza Italia, ma non darebbe quel segnale di discontinuità che sulla giustizia è richiesto un po’ da tutti, a parte il Movimento cinque stelle. Il terreno è del tutto in discesa per Marta Cartabia, non per un problema di prevalenza di curricula, ambedue brillanti, ma perché, laddove la ministra del governo Monti ha “chiuso” alla speranza, l’ex presidente della Corte Costituzionale ha aperto la famosa “finestra”, ispirandosi a fonti autorevoli e per lei – una cattolica di cui si dice sia vicina a Comunione e Liberazione – scuole di vita, come l’esempio del cardinal Martini e dello stesso papa Bergoglio. Il tema è il carcere, e non è secondario, perché parlare della pena vuol dire parlare del processo e dei diritti.
E anche dell’articolo 27 della Costituzione, quello che non piace ai pubblici ministeri e a tutti coloro che ritengono il problema della sicurezza prioritario rispetto a quello dei diritti e della riabilitazione di chiunque, anche e soprattutto di Caino. I giudici della Corte Costituzionale, quando Cartabia era ancora vice, avevano fatto, per la prima volta nella storia, il giro di sette carceri. Ne era nato un docufilm che fu poi presentato anche alle giornate del cinema di Venezia. Ma soprattutto ne è nata una mentalità, un approfondimento culturale, che ha anche prodotto giurisprudenza.
Una bella sintesi di come la professoressa Cartabia abbia condotto la presidenza dell’Alta Corte, è stata l’esposizione fatta nell’ottobre scorso agli studenti della stessa università di Milano-Bicocca dove lei stessa era stata docente. Ricorda il cardinal Martini sulla “dignità”. Che va intesa come “incomprimibile possibilità di recupero, di riscatto, qualunque cosa sia accaduta prima, qualunque fatto sia stato commesso: qui è la dignità della persona”. E lancia l’idea che “la pena debba guardare sempre al futuro, volta a sostenere il cammino di cambiamento di ogni persona”. Ed ecco il concetto della “finestra”, quella di papa Francesco, che vuole sia a disposizione di chiunque, perché deve esserci in ogni carcere, “fisica e simbolica, reale e metaforica”.
La Corte Costituzionale presieduta da Marta Cartabia ha compiuto il gesto più trasgressivo, sul piano reale ma anche simbolico. Ha spezzato il principio per cui nessun responsabile di reati di mafia possa avere alcun beneficio e meno che non faccia il “pentito”. Nasce così la sentenza 253 del 2019, con cui la Consulta ha stabilito che anche i condannati per reati ostativi, cioè quelli per cui era precluso il diritto ai benefici penitenziari e cui era applicato l’articolo 4-bis dell’ordinamento carcerario, avessero diritto almeno ai permessi brevi.
Una rivoluzione, che non è piaciuta al presidente della Commissione antimafia Nicola Morra. Ma che sarebbe stata approvata da Martini e da papa Francesco, perché è stata il risultato delle visite in carcere. E perché, come scrisse Piero Calamandrei, “Se si vuole condurre una riflessione sulla realtà dei detenuti e delle pene, bisogna aver visto”. Ecco perché Marta Cartabia sarebbe un’ottima ministra di giustizia. Perché ha visto, e perché saprebbe aprire quella finestra.
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