Ecco a voi il ministro Alfonso Bonafede, forte con i deboli, ma debolissimo con i forti. Dal Parlamento è scappato, prima di poter snocciolare numeri e solo numeri della sua relazione annuale sullo stato della giustizia, e prima di ricevere fischi e ortaggi dai senatori. Per l’inaugurazione dell’anno giudiziario si è rifugiato nell’aula-bunker di Lamezia, un luogo poco rituale dove si dovrebbero celebrare processoni e invece si dice che si lotta contro la mafia. Un luogo per lui, visto che il guardasigilli ostenta sempre con fierezza la sua coccarda di ministro antimafia.

Soprattutto dopo che un membro del Csm, Nino Di Matteo, che è anche il procuratore più scortato d’Italia per le minacce ricevute dalle cosche, si è permesso di usare una trasmissione televisiva per accusarlo di essersi piegato al volere dei picciotti. Indimenticabile quella domenica sera di un anno fa da Giletti (che ne parla ancora adesso), quando al ministro era stato contestato quanto meno un concorso esterno in associazione mafiosa. Il magistrato aveva improvvisamente buttato fuori un nocciolone che teneva in gola da due anni, dal giorno in cui aveva sperato di diventare capo del Dap, come gli aveva proposto il ministro, in alternativa alla direzione degli affari penali.

Ma Bonafede aveva tradito le sue aspettative, preferendogli uno sconosciuto Basentini alla direzione del Dap e concedendogli solo l’alternativa poco attraente, che lui aveva prontamente rifiutato. Ma la cosa grave accaduta due anni dopo era il fatto che Di Matteo e lo stesso Giletti e tutti gli altri ospiti della compagnia di giro della domenica sera televisiva di La7, avevano pesantemente insinuato un cedimento di Bonafede ai chiacchiericci di ora d’aria di qualche mafiosetto che paventava l’arrivo del magistrato “antimafia” a occuparsi dei circuiti carcerari. I boss minacciavano, si era detto, e Bonafede aveva ceduto.

Il ministro aveva telefonato in diretta in trasmissione, aveva pianto, aveva implorato che lo credessero, aveva gridato che era stato tutto normale, tutto casuale. Si era lasciato trattar male dal conduttore scortese e frettoloso. Si era umiliato, ma non aveva denunciato. Avrebbe potuto farlo, ma non lo aveva fatto. Si era dimostrato forte con i deboli e debole con i forti. Del davighismo aveva assunto solo la facciata, come quello che si fa passare sotto il banco il foglietto con la soluzione del compito di matematica. I suoi risultati, i momenti in cui lui è riuscito a fare il duro, difficilmente erano farina del suo sacco. Ne fa quasi una rivendicazione, sul Fatto di ieri, l’ex procuratore Giancarlo Caselli, l’unico ad apprezzarlo esplicitamente proprio per quelle iniziative (legge Spazzacorrotti, abolizione della prescrizione, iniziativa contro i magistrati di sorveglianza sul differimento pena di alcuni detenuti a rischio contagio da coronavirus) per le quali il guardasigilli sta oggi rischiando il posto.

Sono i provvedimenti-medaglia della subcultura dei cinquestelle, ma che, va ricordato, sono stati votati dalle due diverse maggioranze che hanno sostenuto i governi Conte-Bonafede, prima dalla Lega e dopo dai partiti della sinistra. Che, oggi, soprattutto tra i parlamentari di Italia Viva, sono visti come ostacolo alla permanenza di Bonafede al ministero di giustizia. Stiamo parlando di provvedimenti che portano addosso le impronte digitali dei più accaniti pubblici ministeri, quelli che vedono i cittadini come furbastri colpevoli che l’hanno fatta franca. La prima medaglia, un vero fiore all’occhiello, è la legge del 2019 dal nome suggestivo nella sua spaventosità: “spazzacorrotti”.

È una norma che equipara alcuni reati contro la pubblica amministrazione a quelli di mafia e di terrorismo nell’applicazione delle pene. Una specie di cappio al collo rispetto alla possibilità, per coloro che ne avrebbero avuto diritto, di accedere alla libertà condizionale o alle misure alternative alla detenzione. Bonafede vorrebbe gridarlo tutti i giorni “in galera!” , ma sa che adesso non può, non mentre la sua testa è già nelle vicinanze dell’accetta del boia. Né ha mostrato turbamento alcuno quando un anno fa l’Alta Corte ha dichiarato l’incostituzionalità di una parte di quella legge, quella che mostrava il massimo accanimento con l’applicazione anche retroattiva. Nel comunicato stampa della Corte Costituzionale del 26 febbraio 2020, i giudici erano stati molto espliciti e chiari sul senso vero della detenzione, persino per uno prevenuto come Bonafede. E gli avevano pazientemente spiegato: «Tra il “fuori” e il “dentro” vi è infatti una differenza radicale: qualitativa prima ancora che quantitativa, perché è profondamente diversa l’incidenza della pena sulla libertà personale».

Ma è difficile, anche per persone che indossano quelle toghe nei cui confronti il ministro prova una vera venerazione, far capire il peso che la libertà ha nella vita delle persone. Del resto lo ha dimostrato un anno fa nel corso della lunghissima discussione che si era accesa, mentre l’angoscia per la paura della pandemia attraversava la società intera e preoccupava il timore per la salute di tutti quelli che erano rinchiusi, nelle case di riposo come nelle carceri, dei detenuti come degli agenti di polizia penitenziaria. Proprio per evitare delle vere stragi nei luoghi di reclusione il governo aveva emesso il decreto “Cura Italia”, una sollecitazione di grande buon senso che riguardava soprattutto gli ultimi sei mesi di pena da scontare a domicilio. Nello stesso periodo il direttore del Dap Basentini aveva anche suggerito con una circolare ai direttori delle carceri di segnalare i nominativi dei detenuti anziani e malati, e diversi giudici e tribunali di sorveglianza avevano pronunciato ordinanze di differimento pena.

Un pezzetto di civiltà, di aria pura, che aveva alleggerito il sovraffollamento delle carceri e consentito al personale sanitario di evitare la strage del contagio da Coronavirus. Ma il coro dei giornali più forcaioli, Fatto e Repubblica in testa, la sfilata di magistrati “antimafia” nel solito salotto di Giletti, una vera mobilitazione militante al grido di “rimandiamo in galera i boss scarcerati”, faceva saltare la testa del direttore del Dap Basentini e rimettere sull’attenti Bonafede. Che mette subito una bella museruola ai giudici di sorveglianza, sottoponendo il loro giudizio a una consultazione dei pubblici ministeri “antimafia”. Perché l’uomo è fatto così: se una toga gli fa buu, china la testa e incassa il colpo.

E chi sono i deboli più deboli della società se non coloro che sono privi della libertà, i detenuti? E prima di loro, i penultimi della fila in tema di libertà e di diritti, non sono forse tutti coloro che finiscono nelle mani di quel “Sistema” così ben descritto da Luca Palamara? Parliamo di indagati, rinviati a giudizio, processati. Cioè tutti coloro che, dalla sera alla mattina, si ritrovano costretti a difendersi da qualcosa di più grande della loro stessa vita che improvvisamente è cascato loro addosso: il processo penale. Ed ecco uscire dal cilindro del prestigiatore una bella legge di quelle che piacciono molto a Piercamillo Davigo. E Bonafede continua a farsi passare sotto il banco il compito di matematica. E inventa il massimo della giustizia vendicativa.

Poiché i magistrati (e in particolare i pm nella fase delle indagini preliminari) non riescono a celebrare in tempo i processi, fino a lasciarli cadere in prescrizione, facciamone pagare il prezzo all’imputato, e blocchiamo la prescrizione del reato dopo il primo grado di giudizio. Cioè rendiamo eterno il processo. Come se spettasse all’imputato, e non allo Stato, garantire il principio costituzionale della ragionevole durata del processo. Come se fosse colpa sua il fatto che pubblici ministeri e giudici non sono capaci di rispettare il dettato costituzionale. Ma loro sono soggetti protetti, l’imputato no. Forte con i deboli, debole con i forti. Ecco a voi Alfonso Bonafede.

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Politica e giornalista italiana è stata deputato della Repubblica Italiana nella XI, XII e XIII legislatura.