Il Tribunale di Milano, nella motivazione con cui ha assolto i vertici dell’Eni, ha scritto testualmente «risulta incomprensibile la scelta del Pubblico ministero di non depositare tra gli atti del procedimento un documento che, portando alla luce l’uso strumentale che Armanna intendeva fare delle proprie dichiarazioni e dell’auspicata conseguente attivazione dell’attività inquirente, reca straordinari elementi a favore dell’imputato».

A pochi chilometri di distanza, il Presidente del Tribunale di Verbania ha tolto il fascicolo al Gip, che non aveva accolto le richieste della Procura relativamente alla tragedia del Mottarone e che aveva determinato una piccata reazione del Capo della Procura. I fatti sono, come spesso accade, più efficaci di mille parole. Essi dicono quanto delicata sia la funzione del decidere e quanto, oggi, sia sotto attacco. Soprattutto negli ultimi trenta anni, è cresciuto a dismisura il fenomeno per cui «masse solitarie e inquiete pretendono il diritto di urlare la parola conclusiva su qualsiasi questione, e qui eccellono i meno informati e quelli che non sanno niente di niente. Questo terribile giudice…. si crede padrone dell’accusa e al contempo si erge a signore della sentenza» (così, Fabrizio Di Marzio, Essere Giudici, giustiziacivile.com).

In quella che, con grande efficacia espressiva, è stata individuata come la società della paura, ciascuno si sente legittimato ad estrarre dalla propria paura la propria verità, spesso coincidente solo con la propria impressione. E la moltitudine delle impressioni, che nei social hanno trovato un luogo quasi naturale di saldatura, fa sì che ciascuno finisca con il sentirsi portatore di una verità, che siccome collettiva, è ritenuta assoluta e non predicabile di reale contraddittorio. Anche il processo resta, in questa prospettiva, pura forma, siccome votato ad accertare una verità già definita. È frequente, nei processi che coinvolgono gli interessi o la vita di molte persone, vedere masse che ostentano la frase “giustizia per…”. Dove il termine giustizia è usato impropriamente, atteso che il significato è “condanna”. Volente o nolente, a capo di queste masse è venuto a trovarsi il pubblico ministero. Che, a sua volta, non infrequentemente le sollecita attraverso indiscrezioni passate ai giornalisti, conferenze stampa che sopprimono qualsiasi dubbio, una stabile alleanza, talvolta neppure mascherata, con i partiti o le parti sociali che hanno un diretto interesse alla sconfitta, per via giudiziaria, di un avversario.

Se si tiene presente tutto questo, si comprende che il momento del giudizio è sottoposto ad una pressione enorme. Che collide con l’esigenza che il decidere rispetti la necessità di «percorrere la via faticosa del dubbio, l’unica che potrebbe aumentare la possibilità di cogliere qualcosa di quella verità apparentemente posseduta da tutti ma diversa nelle mani di ognuno» (sono ancora parole di Fabrizio Di Marzio). Ed è questo il compito gravoso ed ineludibile dei Giudici, i quali, alla abitudine del mondo circostante di sparare giudizi a vanvera, devono opporre una fedeltà costante all’esercizio dell’arte del dubbio e ad una analisi dei fatti, governata sempre (e contro tutti) dall’uso della ragione. Il Giudice, quindi, ha il compito, innanzitutto, di essere scudo contro l’irrazionalità, di cui è espressione il giudizio delle masse, e che, in quanto uomo, alberga anche nel suo animo. Ecco, allora, che emerge, in tutta la sua delicatezza, il compito di giudicare, che, a fronte di una società che richiede, in modo sempre più pressante, l’acquiescenza allo strepito di molti, deve, viceversa, alimentarsi della pacatezza della ragione e della saggezza del dubbio. Che possono portare anche a conclusioni diverse da quelle che vogliono le masse ed il pubblico ministero, che spesso le capeggia.

Solo se si tengono presenti questi aspetti, si può comprendere quale bene prezioso, per una collettività democratica, sia l’indipendenza dei Giudici. E quanto essa sia sotto attacco in questo momento storico. Si può comprendere, anche, il perché le forze politiche, che più delle altre hanno il controllo delle leve dell’indignazione delle masse, si oppongano fermamente a qualsiasi seria riforma dell’ordinamento giudiziario. Poter tenere il momento del giudizio sotto la costante pressione della spinta irrazionale che viene dalle masse e che può saldarsi con l’irrazionalità di cui ciascuno, ed anche il Giudice, è portatore, significa poter tenere innescata un’arma di potenza inestimabile nella competizione politica. Viceversa, una autentica fedeltà ai valori democratici richiederebbe un intervento riformatore che sia capace di proteggere quel bene fondamentale, che è l’indipendenza di un giudizio razionale, contro gli attentati che sono stati descritti. È proprio con riguardo a questo aspetto che diventa possibile comprendere appieno l’importanza decisiva dei referendum sulla giustizia. Due di essi, in particolare, appaiono fondamentali: quello sulla separazione delle carriere e quello sulla responsabilità civile.

Nel momento in cui il pubblico ministero, al di là delle intenzioni dei singoli, è venuto assumendo il ruolo di riferimento primario delle masse popolari indignate, il suo allontanamento dalla figura del Giudice è divenuta una condizione essenziale per proteggere quest’ultimo dalla impropria pressione della irrazionalità di quelle masse. A sua volta, la previsione di un reale rischio di responsabilità civile, sia pure con tutte le cautele del caso, serve a ricordare anche al Giudice che il suo lavoro richiede, senza che possano esservi eccezioni, la fatica del dubbio e l’impegno di una analisi approfondita. La nobiltà di quel lavoro trova alimento nella fatica quotidiana di un esame attento di ogni vicenda. Eliminare ogni responsabilità, significa togliere valore alla fatica dei molti e tenere aperte le porte ad una giustizia più permeabile alle spinte della irrazionalità. Se si guardano da questo punto di vista, i referendum si propongono di essere uno strumento di tutela della funzione dei Giudici. Chi li contrasta non vuole una “giustizia giusta”.