Possiamo girarla come si vuole, ma il gesto con cui il presidente del tribunale di Verbania Luigi Montefusco ha messo da parte la giudice Donatella Banci Bonamici assegnando il caso della caduta della funivia del Mottarone alla gip Elena Ceriotti si chiama “sottrazione di fascicolo”. Naturalmente non si tratta di un furto con destrezza, né attribuiamo al presidente alcuna scorrettezza, anche perché il fascicolo sottratto è passato dalle mani di una gip supplente a quelle della titolare. Ma qualche domanda maliziosa possiamo farla. Per esempio, se si è trattato solo di un problema tabellare di ordinaria amministrazione, perché il dottor Montefusco ha sentito il bisogno di dare una spiegazione lunga righe e righe? E poi: quanti altri fascicoli ha restituito alla gip titolare dopo il suo periodo di assenza? Inoltre: visto che c’era da prendere una decisione sulla perizia alla cabina, richiesta dalla difesa di un indagato, che fretta c’era, maldetta primavera?

La verità è che nelle quinte di un fatto tragico, imprevisto ma non imprevedibile come quello del crollo della cabina della funivia che portava al Mottarone, si è verificato qualcosa di veramente strano e incomprensibile ai più. Una giudice che fa la giudice è veramente un soggetto strano. Donatella Banci Bonamici, che aveva lasciato Milano con la reputazione di garantista (e che non aveva fatto parte del giro di Magistratura democratica) e che a Verbania non era venuta meno alla propria fama. Quando, dopo la tragedia del Mottarone, aveva corretto e criticato la precipitosità motivata con il pericolo di fuga con cui la pm Olimpia Bossi aveva nottetempo messo le manette a Gigi Nerini, Gabriele Tadini ed Enrico Perocchio, e poi ne aveva scarcerato due e lasciato ai domiciliari l’unico reo confesso, nessuno, o quasi, aveva considerato il fatto come normale dialettica processuale tra le parti. Soprattutto i giornalisti, che erano abituati diversamente, avevano subito parlato di scontro fra toghe.

Alcuni hanno guardato male la gip perché non agitava la mannaia sul collo degli “assassini”, come avrebbe voluto la solita platea delle tricoteuses. Altri l’hanno definita come “coraggiosa” perché aveva osato mettersi contro il pubblico ministero e il circo mediatico e aveva addirittura scarcerato gli indagati. Ecco quel che succede quando si incontra un giudice normale, sul cammino di un evento tragico come quello accaduto a Verbania con la caduta non accidentale di una cabina della funivia e la morte di 14 passeggeri. Perché ci piace definire “normale” la giudice delle indagini preliminari? Forse perché, in assenza della riforma sulla separazione delle carriere (ma speriamo bene per il referendum), siamo abituati più al copia-incolla del giudice che, per pigrizia, o passività, o subalternità culturale al teorema dell’accusa, si limita a fotocopiare le scartoffie che gli arrivano sulla scrivania, che non al gip che esprime la propria “autonoma valutazione” dei fatti. E perché ci piacerebbe che questa fosse invece la prassi quotidiana.
Quante volte abbiamo letto, nelle lunghe prolisse pagine delle ordinanze con cui il gip confermava custodie cautelari e intercettazioni richieste dal pm, la giustificazione del copia-incolla? Tante, troppe volte.

Da un po’ di tempo inoltre, soprattutto nelle inchieste legate alla mafia o alla ‘ndrangheta, la motivazione del copia-incolla fa riferimento alla copiosa giurisprudenza della corte di cassazione. Che giustifica in gran parte il legame stretto, una sorta di “fidanzamento”, di comunione d’intenti tra colui che accusa e colui che dovrebbe essere arbitro. Anche se, almeno teoricamente, e soprattutto dopo la legge di riforma del 2015 (che ha modificato l’art. 292 cpp), il requisito di “autonoma valutazione” da parte del gip sarebbe, almeno in via teorica, obbligatorio. E del resto, l’autonomia di valutazione del gip era uno dei capisaldi del sistema accusatorio della riforma del 1989, proprio come garanzia dell’imparzialità e terzietà del giudice. Dovrebbero ricordarsene tutti quei magistrati, soprattutto i sindacalisti dell’Anm, che ricordano sempre l’autonomia e l’indipendenza delle toghe, ma mai il ruolo di arbitro del giudice. In verità e nella pratica poi, sono troppe le volte in cui, in seguito ai ricorsi degli inascoltati avvocati difensori degli indagati, sia i tribunali del riesame che la corte di cassazione sono pronti a chiudere un occhio di fronte alla superficialità complice del gip rispetto al pm.

Ma spigolando nella memoria e negli archivi, possiamo trovare le eccezioni, quelle in cui il tribunale del riesame o qualche sezione della cassazione hanno applicato la norma. Prima di tutto perché hanno letto le carte. E poi perché hanno avuto la forza (il “coraggio”?) di scandalizzarsi. E c’è da domandarsi quanti gip scopiazzoni (tantissimi) sono finiti alla commissione disciplinare del Csm. Eppure c’è stato qualche caso in cui almeno un tribunale ha tirato l’orecchio a una toga. C’è da vergognarsi a leggere di alcuni comportamenti. Prendiamo un riesame di Palermo: l’ordinanza del gip consisteva in 420 pagine, tante quante erano quelle del pm che lui aveva diligentemente ricopiato. E che dire di quella sezione di cassazione che nel 2018 ha bocciato un’ordinanza del gip che aveva copiato 3.165 righe delle 3.200 delle richieste del pubblico ministero? Altro che copia-incolla, qui siamo alla fotocopiatrice, alla carta carbone di un tempo…

Ecco perché Donatella Banci Bonamici è considerata “coraggiosa”. Ed ecco perché il presidente del tribunale di Verbania, dopo aver effettuato la “sottrazione del fascicolo”, ha sentito il bisogno di dare delle spiegazioni, del resto logiche e ineccepibili, ma solo in un Paese normale, in cui la “normalità” del comportamento di un giudice ligio solo alla legge non desterebbe scandalo, né in positivo né in negativo. Vogliamo perciò dedicare al dottor Montefusco il racconto di un caso del 2012, relativo a fatti accaduti a Napoli, che chiarisce bene il ruolo di ogni personaggio in campo. Il pm chiede la custodia cautelare in carcere di due indagati accusati di traffico di stupefacenti: il gip concede. La difesa ricorre e il tribunale del riesame annulla l’ordinanza del gip perché manca il requisito di “autonoma valutazione”, addirittura definisce il gip come “troppo distratto” nello stilare l’autorizzazione alla custodia cautelare in carcere dei due indagati.

Tutto finito? No, perché il rappresentante della pubblica accusa ricorre in cassazione, dove riceve un’umiliante lezione. Caro pm, gli viene spiegato, sappia che il suo amico gip ha copiato la sua richiesta da pagina 21 a pagina 300, e non ha avuto neanche il pudore di virgolettare la propria attività di copia-incolla. Quindi si conferma quanto già deciso dal tribunale del riesame. Ecco quello che succede, più spesso di quanto si possa immaginare. Ed ecco perché, tabelle o non tabelle, il presidente del tribunale di Verbania avrebbe fatto meglio a lasciar completare il proprio lavoro alla dottoressa Donatella Banci Bonamici, giudice normale.

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Politica e giornalista italiana è stata deputato della Repubblica Italiana nella XI, XII e XIII legislatura.