Se Raisi è morto fisicamente, Netanyahu è alla sua fine politica. Iran e Israele sono a un bivio delle loro storie: l’incidente dell’elicottero del presidente iraniano e la condanna della Corte penale internazionale dell’Aja pongono i due paesi davanti a un cambio di guida non più rimandabile. Ne abbiamo parlato con l’Ambasciatore Riccardo Sessa, già consigliere diplomatico del ministro della Difesa, direttore generale per il Mediterraneo e Medio Oriente della Farnesina, è presidente dall’aprile 2023 della Sioi (Società italiana per l’organizzazione internazionale)– dove ha sostituito Franco Frattini – dopo essere stato titolare dell’ambasciata italiana a Belgrado, Teheran, a Pechino e presso la Nato.

Cosa comporta la decisione dell’Aja?
«La Corte penale non ha emesso un mandato di arresto. Il Procuratore ha presentato alla camera preliminare del tribunale la richiesta di mandato d’arresto, precisiamolo nei termini».

Un fatto grave, comunque.
«Un fatto allucinante, per il suo effetto simbolico e politico. Destinato ad avere conseguenze pesanti su Netanyahu e sul ministro della Difesa israeliano Gallant, oltre che sui capi di Hamas contro cui pesa una speculare condanna per crimini contro l’umanità».

Con quali effetti, all’atto pratico?
«Nessuna, nel senso che non viene eseguito alcun arresto. È chiaro che non è una medaglia al valore, sul piano diplomatico».

Internamente, Israele è molto divisa.
«Estremamente. Sul piano formale la misura è stata definita “una vergogna” da Israele. Una iniziativa che serve sul piano mediatico, che mette Netanyahu sullo stesso piano di Sinwar».

Un paradosso, ambasciatore. Perché Netanyahu sta cercando proprio di arrestare Sinwar…
«Infatti è una misura simbolica che impatta sulla politica, sull’opinione pubblica».

Rinfocolerà il fronte degli universitari contro il governo israeliano…
«Chi ha interesse a riaccendere quei fuochi, quelle tensioni contro Israele ha sicuramente della benzina in più per propagare l’incendio. Chi vuole invece contribuire a far cessare la carneficina, da una parte e dall’altra, può trovare in questo frangente una spinta in più per portare i contendenti al cessate-il-fuoco».

Israele potrebbe trovare una soluzione per la successione a Netanyahu? Il generale Binyamin Gantz potrebbe essere un valido successore?
«Queste sono cose che devono risolvere gli israeliani. Non glielo possiamo imporre noi e non gliele può imporre la Corte penale internazionale. Bisogna far lavorare la diplomazia: lo ripeto da quando la Russia ha aggredito l’Ucraina. Bisogna tornare allo spirito della mediazione, in particolar modo far parlare gli avversari tra loro. La diplomazia è l’opposto dell’ideologia polarizzata dei social che contraddistingue la nostra società. I diplomatici sono palombari, sommozzatori. Lavorano sott’acqua e alla fine emergono quando hanno fatto il lavoro».

A proposito di Putin, anche nel suo caso la condanna della Corte penale internazionale non ha sortito alcun effetto pratico.
«Ci sono molti paesi tra cui la Russia, gli Stati Uniti e Israele che non riconoscono la corte penale dell’Aja. Non tutti accettano che si proponga come erede del processo di Norimberga».

Cos’è successo all’elicottero di Raisi? Manomissione, sabotaggio interno o incidente?
«L’Iran è un paese di grandi misteri. Solitamente ci sono manine che lasciano cadere veline, qui nessuno ha fatto trapelare niente: vuol dire che davvero è stato un incidente. D’altronde sa, in Iran volano velivoli del 1979, con problemi di manutenzione seri, in un volo ad alto rischio, nel mezzo di una tempesta…».

Elicotteri senza pezzi di ricambio, vuol dire che le sanzioni funzionano.
«Sì, va constatato che le sanzioni funzionano».

Cosa può succedere adesso a Teheran?
«Sul piano del potere non ci sarà alcuna conseguenza. La catena di comando rimarrà immutata: secondo la costituzione teocratica del 1979, il potere temporale e il potere spirituale sono nelle mani della Guida suprema».

Un gradino sotto a Allah…
«E certo. Che prima era Khomeini e oggi è Khamenei. Che ha subito chiarito che non ci saranno svolte in vista. La morte di Raisi non sposta di un centimetro la realtà del potere in Iran che è saldamente nelle mani degli elementi più fondamentalisti dei guardiani della rivoluzione e dei pasdaran. Il presidente della Repubblica in Iran è un onesto primo ministro. Morto un Raisi se ne farà un altro, secondo i dettami di Khamenei».

Lei era stato a Teheran al tempo di Khatami, il leader riformista?
«Sì. Tenga presente che noi non riconosciamo formalmente il potere della guida spirituale, quindi io da ambasciatore italiano andai a presentare le credenziali nelle mani di Khatami. Un presidente moderato e, come tutti dicevano, ‘riformista’. Ma mi resi conto che c’era una linea rossa insuperabile tra le parole di Khatami e quello che in realtà poteva essere fatto. Quel leader che agli occhi di tanti sembrava il Gorbaciov iraniano, aveva sopra di sé un potere teocratico che non gli ha consentito le riforme che auspicava».

Quindi non ci saranno cambiamenti in vista?
«Decide tutto Khamenei, con una cerchia ristretta di consiglieri. Le elezioni servono solo a dare una patina di investitura popolare a colui che viene indicato dalla Guida suprema. Khamenei decide chi va a guidare il governo senza alcuna possibilità per gli iraniani di incidere con le urne».

Comunque una fase di maggiore instabilità a Teheran come a Gerusalemme. Siamo a un bivio della storia?
«Mi fa una domanda che mi angoscia da qualche anno. Temo che siamo in effetti arrivati a un punto molto delicato della storia dell’umanità e delle relazioni internazionali. Vedo una crisi profonda, una crisi di governance. L’ordine mondiale è diventato un disordine mondiale. Non a caso chi si sta dando da fare più attivamente per creare un nuovo ordine? Cina, Russia e Iran. Aggiungiamo che alla crisi di governance si accompagna una profonda crisi di leadership e ci accorgiamo che questo mondo – che per 76 anni ha lavorato con sogni di convivenza e di pace straordinari, e di grande speranza con il crollo del muro di Berlino – con l’invasione russa dell’Ucraina e con il 7 ottobre è arrivato a un punto drammatico della sua storia».

Che cosa si è guastato?
«La multilateralità non funziona più. Vanno ripensati i processi decisionali degli organismi multilaterali e i meccanismi di gestione delle crisi, che non rispondono più alle esigenze. Per questo parlo di un mondo smontato. Aggiungo: la comunità internazionale non è in grado di gestire due guerre così gravi simultaneamente».

Una è nel centro dell’Europa, l’altra nel Mediterraneo. L’Italia è in mezzo. Ma è anche al centro? Può svolgere un ruolo centrale?
«Siamo centrali per forza di cose. Abbiamo cercato di fare in questi ultimi tempi anche più della nostra parte. Siamo un Paese, un popolo con una tradizione unica alle spalle: siamo sempre riusciti a parlare con gli uni e con gli altri. Anche in un momento come questo di oggi, con l’Iran in questa posizione, può vedere l’Italia in posizione diplomaticamente forte. Perché noi abbiamo sempre parlato con l’Iran e siamo sempre stati leali alleati di Israele. E siamo tra i pochissimi, centrali nella Ue, centrali nella Nato, a poter interloquire direttamente con Teheran e con Gerusalemme. Con Kiev e con Mosca. Sempre tenendo fede al nostro campo, ma anche a un principio: la pace la devi negoziare con gli avversari. Io quando ero in Iran parlavo di “dialogo costruttivamente critico».

Rimanendo leali alleati di Israele. Di cui oggi si celebrano i 75 anni dalla fondazione.
«Fuori discussione: tra noi e Israele c’è una comunanza infinita, abbiamo le stesse radici culturali. Non dobbiamo mai far passare in secondo piano la nostra solidarietà e vicinanza a Israele, che ci deve consentire però di essere franchi: con gli alleati e con gli amici non ci si parla mai stando sull’attenti, ma sempre sul riposo. La soluzione è una sola: due popoli e due Stati, bisogna cercare di attuare questa misura e di farla rispettare».

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Ph.D. in Dottrine politiche, ha iniziato a scrivere per il Riformista nel 2003. Scrive di attualità e politica con interviste e inchieste.