Il direttore del Riformista ed io ci alterniamo nel commentare le notizie sul Tg4 delle 19 e sembra che gli ascoltatori apprezzino una forma di News peraltro confezionato in maniera completa e con materiale di cronaca di prima mano. Entrambi, a giorni alterni, ci siamo occupati della catastrofe della funivia di Stresa, e adesso che tutto è più chiaro sono arrivato a una conclusione che vorrei condividere con i lettori e che non ha a che fare con le funivie, ma con il verme del populismo, che è figlio sia del giustizialismo che dell’Italia piagnona e forcaiola. È quell’Italia geneticamente priva di pretese nei confronti della verità, e più ancora priva di garanzie verso la persona intesa, come essere umano degno comunque di rispetto. Ciò che ho annusato di fronte all’accaduto – i morti macellati nel terrore di un macchinario fuori controllo – è stato il piagnonismo preventivo all’italiana che costituisce l’anestetico contro il limpido desiderio di conoscere fatti, cause, responsabilità, errori e le necessarie correzioni.

Ma più che altro sapere: bene, senza una coltre di luoghi comuni tra cui primeggiano -sempreverdi – le “micidiali fatalità”, le “imprevedibili sciagure”, accompagnati da un malloppo di sentimenti ipocriti e precotti che rimbalzavano da molti telegiornali, dalle prime pagine e dal chiacchiericcio degli uffici stampa impegnati a spegnere ogni eventuale libido per la verità. Non critico l’espressione privata del dolore e la costernazione per i bambini esposti come cadaveri da copertina sulle spiagge libiche o siriane, oppure nel tritacarne di una funivia. I sentimenti e il dolore fanno parte del menù informatico. Ma dall’inizio a me è sembrato che mancasse il desiderio semplice asciutto urgente e prevalente – oltre che pratico – di sapere che cosa fosse successo, sapendo che si doveva trattare comunque di errore umano, a prescindere da colpe e delitti. Le inchieste all’inizio ertano appena accennate nella dose minima sindacale, ma mancava la rappresentazione del fatto analizzato come errore umano, su meccanismo umano inventato azionato e curato dall’uomo.

Mio padre, come ho raccontato nel corso delle cronache, era un ingegnere delle Ferrovie dello Stato che fra i suoi compiti aveva quello di collaudare e sottoporre a revisione da stress funivie, seggiovie, montagne russe e luna-park, treni, cabinovie e cremagliere in ogni angolo del nostro Paese. Ho passato gli anni dell’adolescenza a seguirlo mentre investigava su disastri ferroviari, stradali, di tutte le macchine che debbono avere freni d’emergenza automatici e dispositivi di sicurezza. Da quelle avventure una cosa ho imparato: non esistono “incidenti fatali inspiegabili” a meno che non ci sia di mezzo Madre natura con le sue delizie: tsunami, fulmini, frane, eruzioni, terremoti. Se c’è disastro sulle macchine, c’è errore umano. Fiutando nell’aria e nelle parole l’inclinazione verso il fatalismo della sciagura piovuta da cielo come una punizione degli dèi, ho cercato di richiamare l’attenzione sull’errore umano, che invece sentivi culturalmente respinto come un elemento accessorio e in fondo fastidioso: mi sentivo soffocato dalla sopraffazione del banale. Poi, c’è stata la svolta: la scoperta dei meccanismi che avrebbero potuto forse frenare, ma che erano stati rimossi. “Tanto, la fune portante non si rompe perché non si è mai rotta”. E invece si è rotta. Adesso dicono che proprio i forchettoni rimossi l’abbiano tranciata, si vedrà al processo.

Di qui il fermo di tre presunti responsabili. Ed ecco che, soltanto a questo punto, non compare il desiderio di sapere, ma avviene un cambio di maschera: tutti i lamentosi piangenti che parlavano di fatale incidente mandato forse dal demonio, subisce una mutazione trasformandosi in un esercito di carpentieri che inchiodano patiboli. Hanno già processato e condannato i presunti colpevoli sul conto dei quali l’unica curiosità si concentra su un solo punto: avevano pianto? Avevano tentato di buttarsi dalla finestra? Eravamo passati da un atteggiamento rinunciatario rispetto alla richiesta di verità alla giustizia sommaria: “Chiudeteli in galera e buttate la chiave”. Il populismo di destra stemperava l’indignazione con l’attenuante della lunga astinenza da Covid, mentre quello grillesco starnazzava dalla felicità gridando: a morte i profittatori e galera senza pietà. Male che vada, domani, qualcuno chiederà scusa attraverso un giornale, come ha appena fatto Di Maio con una lettera al Foglio in cui chiede scusa al sindaco di Lodi ingiustamente perseguitato e finalmente assolto.

Ma per ora, quella fetta del nazional-populismo sinistrese festeggia la vittoria sulla malvagità di chi fa profitto, a prescindere. Nel frattempo, tutte le regole delle garanzie, come ha già scritto il direttore del Riformista, sono saltate cedendo il passo ad anticipazioni delle sentenze di ogni ordine e grado, particolarmente gradite a una folla improvvisata passata dai riti fatalisti della disgrazia (probabilmente per reazione del Pianeta offeso da chi pianta cicoria togliendo spazio alle fragole di bosco), al partito populista della punizione esemplare.

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Giornalista e politico è stato vicedirettore de Il Giornale. Membro della Fondazione Italia Usa è stato senatore nella XIV e XV legislatura per Forza Italia e deputato nella XVI per Il Popolo della Libertà.