Sui Taxi Giorgia prova la svolta

Giorgia Meloni prova a fare la Thatcher italiana piegando la lobby dei taxi dopo vent’anni di anarchia e ricatti. E nello stesso giorno apre le porte dell’assumificio pubblico. Attenzione: non si parla di quella mano d’opera qualificata di cui tanto avrebbero bisogno i comuni e gli enti locali dopo anni di tagli e impoverimento bensì di funzionari e dirigenti che vanno ad ingrassare gli uffici ministeriali che certo non difettano del capitale umano. Da una parte, con i taxi, il libero mercato – si pensa, si spera, vedremo – dall’altra la forma più antica di statalismo e il più classico dei moltiplicatori di poltroncine e strapuntini da dove passa il caro vecchio consenso. Strano modo di diventare la Margaret italiana, ruolo a cui la Giorgia nazionale ambisce dal primo giorno che si è seduta a palazzo Chigi come dimostra l’evoluzione “democristiana” della sua leadership.
Succede tutto ora, quando il Parlamento chiude le aule per cinque settimane e palazzo Chigi si accinge a fare altrettanto per circa tre.

Ieri c’è stato un consiglio dei ministri definito dagli staff “di scarsa rilevanza mediatica”. E però si scopre che nelle pieghe la ministra del Turismo Daniela Santanchè beneficerà di un Dpcm che raddoppia l’organico ministeriale a sua disposizione grazie al quale i funzionari, con relativi stipendi, passeranno da 150 a 324, più del doppio, e i dirigenti di prima fascia da 4 a 7, di seconda da 16 a 23. Non è chiaro, al momento, se anche altri ministeri beneficeranno dello stesso trattamento. Di sicuro ieri è diventato legge il decreto Pubblica amministrazione numero 2 che per lo più serve ad aumentare i dipendenti di un altro ministro molto vicino alla premier: Gennaro Sangiuliano, titolare della Cultura. Anche altri uffici pubblici potranno godere, grazie al decreto, della stessa cura ingrassante.

Fin qui, appunto, c’è molto di statalismo e assai poco di liberismo sano, quello che potrebbe far crescere il paese nel rispetto dei diritti di tutti.

Poi però c’è la Giorgia-Margaret. Ed è quella che si è stufata dei “tavoli” con i tassisti dove non si trovano soluzioni e, anzi, si avanzano sempre maggiori pretese. La premier ha fatto “giocare” per qualche settimana il ministro alle Infrastrutture e Trasporti Matteo Salvini. Poi gli ha messo accanto un “suo” ministro, Adolfo Urso, titolare del Made in Italy e delle Imprese. Risultati scarsi. Colpa di nessuno, certamente. Di sicuro quando metti 32 sigle sindacali al tavolo le speranze di una sintesi sono scarse. Così Meloni sta per suonare il gong. Anche perché la procedura avviata dall’Antitrust martedì mattina non lascia più tempo.

Ieri pomeriggio ha convocato a Palazzo Chigi i rappresentanti sindacali e ha messo sul tavolo la soluzione “improntata all’efficienza e trasparenza nei confronti del cittadino, all’equità per i tassisti e al rispetto delle regole del mercato”. Lunedì dovrebbe essere portata in Consiglio dei ministri, l’ultimo prima della pausa estiva.

Soluzione che però non piace ai tassisti. La premier cerca di evitare strappi ma è chiaro che mette in conto il braccio di ferro con la categoria e scioperi a raffica nelle città. Non ora. Magari a settembre. Si può immaginare che il dossier sia uno di quelli su cui si misurerà l’ennesimo braccio di ferro tra la premier e il vicepremier Salvini nonché ministro delle Infrastrutture. L’ennesimo scontro interno, silenzioso ma non per questo meno corrosivo, tra la Lega e i Fratelli.

Il giusto compromesso dovrebbe essere la “doppia licenza”. In pratica i Comuni potranno rilasciare entro un termine predeterminato una licenza aggiuntiva a ciascun titolare che ne faccia richiesta e che abbia i requisiti previsti. Si tratta di una misura di sistema, flessibile, in grado di affrontare i picchi della domanda legati a grandi eventi o a flussi di presenze turistiche superiori alla media stagionale.

Ai tassisti, come si diceva, non piace. Non vogliono aumentare il numero delle licenze perché andrebbe ad inflazionare il valore di quella che già hanno. Accusano il trasporto pubblico locale dicendo che non possono essere loro gli unici a pagare i disservizi di mesi e anni. In ogni città d’Italia e non solo nelle tre finite nel mirino dell’Antitrust (Roma, Bologna, Milano). Al di là delle code chilometriche ovunque, a Torino 9 taxi su dieci ti dicono prima di salire che “il Pos non funziona”. A Firenze non è possibile prenotare una macchina alle 6 del mattino.

A Massa, per andare su centri più piccoli, alla stazione arrivano solo su chiamata, così caricano la corsa. Da Fiumicino ti dicono subito 5 euro in più se vuoi pagare con la carta. A Ciampino scelgono di “servire” per lo più turisti stranieri. Per il resto girano auto vecchie, sporche, anche puzzolenti con autisti che non sanno neppure la strada dove deve andare. Al netto di guide come minimo azzardose. Per chiamare le cose col proprio nome, i tassisti rifiutano le leggi del libero mercato. La vecchia cara concorrenza per cui Mario Draghi, un anno fa, fu mandato a casa. E qui Giorgia Meloni ha l’occasione migliore per dimostrare fino a che punto vuole veramente diventare la Thatcher italiana.