Quando la radio va in tv e snatura il suo senso. Che fine ha fatto il medium intimo?

Negli ultimi anni, si è diffuso un nuovo formato ibrido che prende il nome – moderno e “figo” – di “visual radio”. Il concetto è semplice: si installano un paio di telecamere nello studio radiofonico e si trasmettono – sui canali televisivi terrestri o satellitari – le immagini dei conduttori mentre parlano. Il nome promette un’esperienza evoluta, ma la realtà è più prosaica: si tratta perlopiù di inquadrature statiche, ambienti neutri, volti che parlano davanti a un microfono. E viene da chiedersi: perché? Cosa si guadagna – e cosa si perde – trasmettendo la radio in televisione tv? La questione è tutt’altro che banale. Perché la radio, per definizione, è un medium sonoro. Non è solo un mezzo di trasmissione della voce: è una forma culturale basata sull’ascolto, sull’immaginazione, sul racconto che costruisce mondi. La radio non mostra, ma evoca. Non ti dice “guarda qui”, ma ti sussurra “immagina”. È l’arte del non visibile, dove l’assenza di immagini non è un limite, ma una potenza espressiva. Le parole, i suoni, le pause, persino il silenzio – tutto contribuisce a creare un’atmosfera, a suscitare emozioni, a generare un mondo mentale che appartiene solo a chi ascolta.

Pensiamo ai radiodrammi, che un tempo incantavano milioni di persone. Bastava una voce narrante, qualche effetto sonoro e un buon testo per trasportare gli ascoltatori su un’isola deserta, in una città futura, in una tragedia greca. Oppure ai programmi di storytelling contemporanei, come quelli di Matteo Caccia, capaci di raccontare vite ordinarie e straordinarie con la sola forza della parola. La magia della radio è tutta lì: nella possibilità di chiudere gli occhi e vedere –dentro di sé – qualcosa che nessuna telecamera potrà mai mostrare.

La “visual radio” rompe questa alchimia, introduce un elemento visivo che rischia di snaturare il senso stesso della televisione L’ultima, in ordine di tempo, è la “tv” del Sole24 ore, dove l’ascoltatore diventa spettatore passivo, la radio si trasforma in una televisione povera, priva di montaggio, di estetica, di ritmo visivo. Il potere evocativo del suono si dissolve nella banalità del “dietro le quinte”. Certo, si potrebbe obiettare che la “visual radio” non intende sostituire la radio tradizionale, ma solo offrire un’alternativa, con il volto del conduttore che diventa un brand e il microfono un totem . La radio, invece, è per sua natura “ritardata”, richiede attenzione, tempo, silenzio. È un medium intimo, che si ascolta da soli, magari mentre si cammina, si guida, si cucina. Non chiede tutto il nostro sguardo, ma solo un pezzo della nostra coscienza. In cambio, ci regala spazi mentali, immagini interne, pensieri che nascono dall’ascolto.

Aggiungere il video rischia di rompere questo equilibrio, trasformando la radio in una televisione povera, che non ha mai voluto essere. Non si tratta di nostalgia per un’epoca passata, né di difesa cieca di un purismo radiofonico. La radio può evolversi, sperimentare, contaminarsi. Ma deve farlo senza perdere la propria anima. E soprattutto deve interrogarsi sulle conseguenze culturali di ogni innovazione tecnica. La “visual radio” non è solo una questione di formato: è una scelta di campo. Significa decidere se privilegiare l’immaginazione o la visibilità, la parola o l’immagine, la mente o gli occhi. E in un’epoca in cui tutto sembra voler essere visibile, forse è più che mai necessario difendere ciò che non si vede. In fondo, la radio è – e resta – un luogo di libertà. Libertà di ascoltare ciò che si vuole, quando si vuole. Ma soprattutto, libertà di immaginare. Di completare con la propria fantasia ciò che la voce suggerisce. Di vedere con l’anima, non con la retina. Rinunciare a questa libertà, anche solo in parte, per rincorrere una tendenza mediatica, è un rischio che andrebbe valutato con attenzione. Perché, come diceva Orson Welles, “la radio è il teatro della mente”. E nel teatro della mente, non c’è bisogno di telecamere.