Quando Mussolini ordinò di prendere Roma per evitare la difesa di Giolitti

La decisione finale sulla marcia viene presa nel pomeriggio del 16 ottobre. Alle 15, nella sala del direttivo del Partito fascista presso la redazione del Popolo d’Italia, si riuniscono 9 persone. Con Mussolini e Bianchi ci sono i tre comandanti della Milizia, Balbo, De Bono e De Vecchi. C’è Attilio Teruzzi, vicesegretario del Pnf e sono stati convocati due generali in pensione Gustavo Fara e Sante Ceccherini. L’ultimo invitato, Ulisse Igliori, capitano, mutilato di guerra e capo della Milizia romana, arriva in ritardo, a riunione già conclusa.

Nei giorni precedenti Mussolini e Bianchi hanno intensificato i contatti con tutti i leader liberali in competizione tra loro, tutti decisi a incanalare il fascismo in un ordinato corso costituzionale ma anche a sfruttarlo a proprio vantaggio. Bianchi ha incontrato per tre volte in pochi giorni il primo ministro Facta. Gli ha fatto balenare l’ipotesi che possa tornare a guidare il nuovo governo. Lo ha lusingato in un’intervista, dopo il primo colloquio: «Ha avuto, lui solo, il merito di aver saputo evitare l’urto tra le forze fasciste e le forze dello Stato». Mussolini intensifica i rapporti con il prefetto di Milano, Lusignoli, l’“ambasciatore” di Giolitti e naturalmente giura che i fascisti sono disposti a collaborare solo con l’anziano piemontese, “autorevole ed esperto”: in cambio di quattro ministeri fondamentali tra cui Esteri e Guerra. Parlando con il nazionalista Federzoni, il duce candida invece Vittorio Emanuele Orlando, “bella figura di italiano con cui si potrebbe lavorare volentieri”. Anche con Salandra, l’uomo su cui puntano “i fascisti antimarcia”, Mussolini finge di tenere le porte aperte.

Lui e Bianchi recitano il più classico gioco delle parti: il vicesegretario fa il duro, quello che non si accontenta e alza continuamente la posta chiedendo più ministeri, Mussolini è la colomba, ragionevole e apparentemente disposto ad accontentarsi di poco. La tattica di Mussolini e Bianchi non serve solo a ingannare gli uomini dell’Italia liberale per paralizzarli a impedir loro di organizzare la reazione all’attacco fascista. Il doppio tavolo è essenziale nella strategia di Mussolini. I capi fascisti sanno di non poter prendere Roma con la Milizia e sanno anche che l’esercito, pur simpatizzando con loro, obbedirebbe al re in caso di conflitto frontale. L’insurrezione mira a occupare le principali città del nord e a minacciare la Capitale per far pesare la situazione d’emergenza sulla trattativa stessa. Tra i leader liberali non ce n’è uno che consideri l’eventualità di un governo senza i fascisti e la paura di una resurrezione del “bolscevismo” ne condiziona ogni scelta.

Non si tratta dunque di arrivare al governo, obiettivo che sarebbe facilissimo cogliere senza mobilitare le camicie nere, ma di alzare il prezzo e dare un segnale inequivocabile di rottura drastica con il passato. Forte di queste considerazioni, Mussolini si rivolge agli uomini che ha convocato a Milano, nel pomeriggio del 16 ottobre. Il vertice comincia male. De Bono e De Vecchi si inalberano per la presenza dei due generali, minacciano di andarsene. Mussolini li ferma ma De Bono nel primo intervento torna a protestare per la presenza di figure estranee alla Milizia. Mussolini lo convince sottolineando l’utilità di avere “generali in divisa alla testa degli insorti”. De Bono si convince ma a quel punto sono gli “intrusi” stessi che chiedono di lasciare il vertice ed è proprio De Bono a pregarli di restare.

Superato l’incidente Mussolini va dritto al punto: «Cercano di soffocare il nostro movimento. Giolitti crede di poterci offrire due portafogli ma per noi ce ne vogliono 6 o nulla. Bisogna mettere in azione le masse, creare la crisi extraparlamentare. Bisogna impedire a Giolitti di andare al governo. Come ha fatto sparare su d’Annunzio farebbe sparare sui fascisti». Il duce illustra poi il piano d’azione, che dovrebbe scattare il 21 ottobre ma la data resta incerta. Conclude perentorio: «Credo che tutti saranno d’accordo. In caso contrario vi prevengo che attacco ugualmente». Invece l’accordo non c’è. De Bono, De Vecchi e i due generali ripetono che la milizia non è pronta. Ci vogliono almeno altri 40 giorni, forse anche qualche mese. Gli risponde per primo Balbo: «Ritengo pericolosissimo ogni indugio. Le manovre dei vecchi partiti si fanno più serrate. Meglio tentare oggi, anche se la preparazione non è completa, piuttosto che domani quando sarà completa anche la preparazione degli avversari».

Bianchi è dello stesso parere e soprattutto decide in questo senso Mussolini, trascinando i dissenzienti: «È inutile attendere il perfezionamento delle forze, che non si può ottenere». La marcia è decisa. La data invece no. Forse le obiezioni dei generali hanno fatto presa. Comunque Mussolini lascia la questione aperta: «Non si può decidere se l’insurrezione debba essere immediata ma ritengo che si debba e si possa iniziarla subito qualora l’occasione si presenti». In ogni caso dopo la grande adunata fascista convocata a Napoli per il 24 ottobre. Non è stabilito, in realtà, neppure l’obiettivo dell’insurrezione. Il 16 ottobre Mussolini ancora non considera la conquista della presidenza del Consiglio irrinunciabile. La marcia rientra nella logica propria degli uomini d’azione, da Napoleone a Lenin:On s’engage et puis on voit”.

La decisione di sorvolare sulla data del colpo non deve trarre in inganno. Mussolini sa di dover agire subito. Appena conclusa la riunione sbotta sintetizzandone gli esiti con il fidatissimo Cesare Rossi: «Bisogna bruciare le tappe. Non la volevano capire ma ho puntato i piedi. Dicono che mancano i bottoni alle uose, capisci? Si credono di dover organizzare una parata d’onore! Non capiscono che se lasciamo passare questo momento favorevole per noi è finita». Più di ogni altro esito Mussolini teme il ritorno al governo di Giolitti e ha ragione perché tutto sembra spingere in quella direzione. Il 17 ottobre una delegazione di industriali al massimo livello incontra Lusignoli e chiede senza perifrasi l’intervento di Giolitti.

Il prefetto riporta i loro desiderata all’interessato: «Gli industriali dichiarano che sono favorevolissimi a un ritorno di Vostra Eccellenza al potere. Sono disposti a tutti i sacrifici». Anche Facta insiste perché Giolitti si muova subito: «Provvedere è urgentissimo e un uomo come te a tutto può provvedere», telegrafa. Nella stessa giornata il grande sociologo Vilfredo Pareto, sostenitore strenuo del fascismo, scrive all’amico economista Maffeo Pantaleoni: «Quel volpone di Giolitti sta preparando la disfatta del fascismo: se i fascisti si lasciano addomesticare sono finiti». All’insurrezione, comunque, continua a non credere nessuno anche se alcune indicazioni che smentiscono l’opinione comune arrivano.

Un rapporto del capo dell’Ufficio informazioni riservate dell’esercito Vigevani, datato 17 ottobre, dice, citando una fonte non identificata, che «l’ on. Mussolini non vuole discutere la partecipazione a un governo Giolitti. Vede il crollo del fascismo se perdura la situazione politica attuale, perciò parla della necessità assoluta del fascismo di uscirne con un grande atto». Nella stessa giornata il primo aiutante di campo del re, il generale Cittadini, spedisce a Facta un telegramma cifrato a nome del sovrano: «Notizie danno conferma circa un colpo di mano che con l’aiuto di circoli d’affari svizzeri verrebbe tentato prossimamente su Roma». È probabilmente sulla base di queste informazione che il ministro della Guerra Marcello Soleri, uno dei ministri più ostili al fascismo, decide di approntare subito la difesa della Capitale.