Nel dibattito sempre più acceso sul referendum per la separazione delle carriere, pochi osservatori riescono a offrire uno sguardo lucido e strutturato come Carlo Fusaro. Costituzionalista, già deputato del Partito Repubblicano e professore ordinario di Diritto pubblico comparato, con il suo nuovo vademecum per Libertà Eguale invita gli elettori a superare le tifoserie politiche e a tornare al merito delle riforme. Il documento riporta l’attenzione sul cuore del processo accusatorio e sul ruolo distinto, ma spesso confuso, di Giudici e Pubblici ministeri. In questa conversazione ci accompagna dentro la storia e ci guida tra le prospettive future di una riforma che tocca non solo l’architettura istituzionale, ma anche la cultura democratica del Paese.

Perché ha sentito l’esigenza di redigere un vademecum sulla separazione delle carriere?
«Sono anni che ai referendum di ogni genere, a quelli costituzionali in particolare, troppi finiscono col votare sulla base dello schieramento. Basti pensare alla riforma Renzi-Boschi del 2016, respinta nonostante i sondaggi avessero mostrato che sulle singole questioni gran parte dei cittadini era a favore. Salvo che poi tanti votarono per “mandare a casa Renzi”. Oggi si tratta di “mandare a casa Meloni” (cosa legittima, anzi buona, ma che spetterà agli elettori alle prossime politiche). Penso invece che occorra fare uno sforzo per votare considerando il merito dei testi in esame: l’idea dei Costituenti. E allora il vademecum (che non nasconde l’orientamento per il Sì) analizza la riforma punto punto e cerca di spiegare il perché di quel Sì».

Cosa possiamo imparare dalla storia del riformismo giudiziario per interpretare oggi questa riforma? Pensiamo a importanti figure come Giuliano Vassalli…
«Possiamo imparare che chi ha voluto il processo accusatorio, cioè quello che meglio tutela i diritti degli indagati, specie quelli che non hanno magari avvocatoni a difenderli, ha sempre considerato la rigorosa separazione delle carriere il suo naturale corollario».

Però c’è chi sostiene che si verranno a creare due caste separate di magistrati, con logiche d’élite. È un timore fondato?
«No. A me pare che – visto che chi giudica nulla deve avere a che fare con chi accusa – sempre meglio due caste che una. Ma chiamarle caste mi pare ingiusto comunque. Diciamo “populista”».

Come si può evitare che la nuova struttura generi altre chiusure, magari ancora più rigide, piuttosto che favorire apertura e trasparenza?
«Il costituente immaginò di integrare i magistrati con giuristi scelti dal Parlamento. Sia pure col sorteggio, resta così. Ci sono ordinamenti che hanno copiato il nostro (il Csm è uno dei rari contributi italiani al costituzionalismo contemporaneo), ma hanno ridotto la quota dei magistrati. Credo che non sarebbe stato opportuno (per quanto legittimo) fare altrettanto, avrebbe avvalorato il vittimismo di taluni magistrati. Non vedo perché il nuovo assetto dovrebbe ridurre apertura e trasparenza».

Il sorteggio del Csm è uno degli aspetti più discussi. Non c’è il rischio di produrre incertezze e instabilità nel governo della magistratura?
«Discusso, sì: ma è uno dei migliori aspetti della riforma. Ridimensionerà le correnti, ridurrà quasi a zero il rischio di decisioni sulle carriere influenzate dall’adesione ad esse. I Csm non sono organi rappresentativi. Anzi, uno dei problemi è che in questo il Csm si è trasformato. Sono organi amministrativi. Non vedo perché magistrati estratti a sorte (sulla base di criteri che la legge individuerà) dovrebbero essere meno competenti di quelli che per farsi eleggere sono andati a caccia di voti».

Le opposizioni sono già sulle barricate, eppure molti nel centrosinistra voteranno Sì. Nel segreto dell’urna, però. Perché hanno timore di esporsi pubblicamente?
«C’è il timore di compiere una scelta che favorisca il governo Meloni e di essere accusati, perciò, di aiutarla. Ma se piove e Meloni dice che piove, io per non darle ragione non è che rifiuto l’ombrello».

La riforma viene spesso presentata come «una questione tecnica», ma in realtà è una sfida culturale, politica e morale…
«Direi culturale, prima di tutto. E politica nel senso di politica giudiziaria. Il suo impatto si vedrà nel tempo. Noi italiani (a partire da gran parte dei giornalisti) dobbiamo imparare che un Giudice è una cosa e un Pm un’altra: sono figure radicalmente diverse, e l’uno deve incontrare l’altro, possibilmente, solo in aula. Invece è tutto un chiamare Giudici i Pm, nonostante 35 anni di processo (quasi) accusatorio. Ma questo succede proprio perché stessi concorsi, unica carriera, stesse correnti, stesso giudizio disciplinare, stesse continue frequentazioni, prese di posizione unitarie favoriscono una dannosa confusione».