Le ragioni di un Sì
Riforma giustizia, perché giudice e pm devono allontanarsi: l’imparzialità, l’efficacia del contraddittorio e l’equilibrio da garantire
Alcuni giorni fa, il Direttivo dell’Associazione tra gli studiosi del processo penale “G. D. Pisapia” – organo di rappresentanza eletto da circa 150 soci professori universitari – ha diffuso un motivato documento adesivo alle linee di fondo sottese alla riforma sulla cd. separazione delle carriere. Si tratta di documento approvato con il voto contrario di uno tra i sette membri del Direttivo; la qual cosa esprime una (fisiologica) componente di dissenso.
A prescindere dalle singole previsioni scritte dal legislatore, alcune delle quali avrebbero potuto essere più meditate, gli obbiettivi della riforma sono condivisibili laddove mirano a distanziare il pubblico ministero dal giudice, anche istituendo un doppio organo di autogoverno e divaricando essenzialmente i percorsi di accesso, formativi e di prosecuzione nei distinti ruoli. Sappiamo che ora il potere giudiziario è costituito da un unico blocco, dove i magistrati condividono interamente il sistema concorsuale, organizzativo, disciplinare e di up grade, controllato e diretto dal Consiglio Superiore della Magistratura, la cui ampia maggioranza è eletta dal medesimo corpo sulla base di liste proposte dalle differenti “correnti” ideologiche.
Questa inconfutabile amalgama tra gli aspetti della vita professionale dà luogo ad una contiguità tra magistrato giudice e magistrato pubblico ministero che, giocoforza, travalica gli aspetti organizzativi, inquinando (anche volendosi fermare all’apparenza) il terreno delle due funzioni. Se si assume, secondo una prospettiva logica prima che processuale, che il giudice dev’essere imparziale, non c’è dubbio che questo carattere è minato dalla descritta vicinanza con il magistrato requirente. L’esigenza secondo cui il giudice si collochi in un punto equidistante dagli interessi in campo postula che le funzioni di accusa e di difesa gli stiano (entrambi) il più lontano possibile. D’altro canto, l’imparzialità si riflette sulla efficacia del contraddittorio: la dialettica è destinata ad indebolirsi se il giudice appartiene alla stessa categoria di uno dei due contendenti; detto in altri termini, quando il pubblico ministero ha la stessa veste professionale del giudice, egli assume una fisionomia che, anche nell’immaginario collettivo, delinea i caratteri della neutralità analoghi a quelli del suo collega. Non sono casuali talune linee giurisprudenziali, ancora in auge in un recentissimo passato, volte a valorizzare l’attività del magistrato requirente, attribuendo a quest’ultimo una tendenziale imparzialità di condotte e, dunque, accreditandogli fatalmente una caratteristica che esige solo il giudice.
La previsione – attuata nel testo costituzionale del 1948 – di una magistratura riunita in un unico blocco, organizzato in modo che giudice e pubblico ministero si distinguessero solo nel ruolo esercitato nel contesto delle singole vicende processuali, ha due matrici. Innanzitutto, la reazione alla pregressa esperienza assolutista di governo, dove non era escluso che il corpo giudiziario fosse indirizzato dall’Esecutivo. Inoltre, l’influenza ideologica del codice di procedura penale del 1930 – vigente fino al 1988 – dove la figura del pubblico ministero confinava per molti aspetti con quella del giudice; proprio a tal ultimo riguardo, basti pensare che l’uno e l’altro, secondo un percorso saldamente autoritario, avevano il potere di limitare le libertà dell’imputato e di svolgere un’istruttoria segreta, senza alcun confronto con la difesa.
Oggi, il clima è diverso, sia perché, oramai da 70 anni si sperimenta un sistema democratico fondato su reciproche forme di controllo tra gli organi costituzionali, scevri dalla patologica crescita di un solo potere rispetto agli altri, sia perché – dal 1989 – è mutata la disciplina del processo penale laddove individua oneri e diritti delle parti (incluso il pubblico ministero), distinguendoli decisamente da quelli del giudice; su questa più moderna linea si muove la riforma costituzionale in atto la quale non mina l’indipendenza dell’ordine giudiziario ma diluisce, in nome dell’imparzialità del giudice, la matrice identitaria di magistrati giudicanti e dei magistrati requirenti.
Se, per un verso, l’esigenza – avvertita anche da una significativa fascia della popolazione – è quella di delineare una più netta separazione tra pubblico ministero e giudice, d’altro canto, scindere il blocco unitario della magistratura in due canali differenziati costituisce un’opera legislativa legittima, non incontrando i limiti (espliciti o impliciti) imposti alle modifiche della Carta fondamentale, concentrati in alcuni irrinunciabili capisaldi della vita democratica, come, per esempio, le forme di “controllo reciproco” dei poteri apicali, l’indivisibilità della Repubblica o la manomissione delle libertà fondamentali.
Anzi, proprio la neutralità ineffettiva del giudice mette a rischio l’equilibrio istituzionale che va garantito con l’equidistanza di chi decide sulla lite, cioè, di chi compone i contrapposti interessi in gioco. A ben vedere, lo stesso testo costituzionale attribuisce al giudice, e non al pubblico ministero, il carattere di imparzialità o di esclusiva soggezione alla legge (formula simbolica che allude all’assenza di ogni interesse); il che autorizza a prevedere per il magistrato d’accusa un apparato che ne tuteli, sì, l’autonomia ma in una modalità differente da quella prevista per il giudice.
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