Il discorso sulle riforme costituzionali appare al momento sospeso in una sorta di limbo in attesa che il governo, su iniziativa del ministero guidato da Maria Elisabetta Alberti Casellati espressamente preposto alle riforme, presenti un disegno di legge dal quale far partire la discussione parlamentare. È un’attesa, a ben vedere, al contempo normale e paradossale. È infatti, del tutto normale che si attenda il testo con la proposta del governo per almeno due ragioni: da un lato perché la sua redazione ed imminente presentazione è stata ampiamente annunciata dalla stessa Ministra e si è creata dunque una notevole aspettativa. D’altro canto, quello delle riforme istituzionali è stato più volte indicato come uno dei punti programmatici dell’attuale governo ed è, pertanto, assolutamente ovvio che il dibattito non possa prescindere dalla esplicitazione delle scelte che su tale materia esso intende compiere.
Non vi è nulla di anomalo, quanto meno a parere di chi scrive, nel fatto che legittimamente un esecutivo abbia una propria visione della direzione da imprimere alle riforme e voglia tradurre questo orientamento in un disegno di legge costituzionale. E tuttavia è innegabile il rischio che si annida dietro questo percorso, rischio che si è palesato tanto nel 2006 quanto nel 2016: la percezione che quella riforma sia una riforma “di parte” e che il dibattito sui contenuti venga drammaticamente schiacciato dalla guerra di fazioni.
Attendiamo dunque, giustamente, il testo sul quale il governo intende incardinare la discussione, sapendo tuttavia – e qui sta il paradosso – che proprio l’iniziativa del governo potrebbe rappresentare la ragione del fallimento. Eppure, non solo è ormai nettamente prevalente la consapevolezza della necessità di intervenire, come certificato dai 58 contributi di altrettanti costituzionalisti raccolti in un recentissimo volume (G. Pitruzzella, A. Poggi, F. Fabrizzi, V. Tondi della Mura, F. Vari (a cura di), Riforme istituzionali e forme di governo, Giappichelli 2023), ma non sembra neanche così impossibile trovare una quadra sul come e sul dove. A patto che non si voglia strumentalmente fare della discussione sulle riforme un campo di battaglia politico che prescinde dal merito delle questioni.
E allora, in quest’ottica, sarebbe un segnale di grande responsabilità se le forze politiche presenti alla Camera ed al Senato, tanto di maggioranza quanto di opposizione, uscissero allo scoperto e si attivassero (lo ha fatto sino ad ora solo Italia Viva), se fosse cioè lo stesso Parlamento ad “appropriarsi” fin da subito di una discussione che lo riguarda direttamente e che potrebbe essere occasione di riscatto. Cadrebbe, infatti, in errore chi pensasse che interventi di razionalizzazione della nostra forma di governo avrebbero come inevitabile conseguenza quella di mettere ulteriormente all’angolo il Parlamento a favore di un sempre più ingombrante esecutivo; tutt’al contrario, gli interventi sulla seconda parte della Costituzionale non potrebbero che essere guidati dalla necessità di mettere ordine nei rapporti tra i poteri, ridando a quel Parlamento oggi mortificato dalle più o meno nefaste prassi che conosciamo (la decretazione d’urgenza, il ricorso alla fiducia, il monocameralismo di fatto…), il posto che deve avere in un ordinamento liberaldemocratico.
Ebbe modo di dirlo con parole inequivoche Giorgio Napolitano nel luglio del 2016, pochi mesi prima che si celebrasse il referendum costituzionale che poi bocciò la riforma, in un incontro che si tenne all’Enciclopedia italiana. In quella sede, parlando di progressiva degenerazione del procedimento legislativo e ricordando il caso della legge finanziaria del Governo Prodi approvata con articolo unico e 1300 commi, disse espressamente che la causa era da rintracciarsi in un vero e proprio “stato di necessità”, per il quale un procedimento più spedito, lineare e sicuro nei tempi di svolgimento e di conclusione avrebbe potuto, a parer suo, essere un rimedio efficace.
Nello sbilanciamento ormai evidente tra Esecutivo e Legislativo, seppure la causa non sempre può essere rintracciata in ragioni nobili, un dato è però certo e lo ribadiva con forza Napolitano: il mantenimento dello status quo, con l’intento di preservare il Parlamento, finirà per mortificarlo ulteriormente. È quello che vogliamo?
