Ritratto di Alberto Arbasino, il gran lombardo che ha stravolto la letteratura

Nell’apparente tranquillità di una famiglia colta della provincia lombarda, fatta da generazioni di avvocati e magistrati, Alberto Arbasino è stato l’intellettuale dirompente che in quasi un secolo ha scavalcato istituzioni consolidate e destinate a reiterarsi. L’elegante palazzotto di «puro Quattrocento ferrarese» nella cittadina di Voghera gli diede i natali nel gennaio del 1930, una biblioteca concorrente a quella di Monaldo Leopardi e la paternità dell’espressione “casalinga di Voghera”, entrata nel lessico giornalistico come stereotipo sessista di “senso comune”. Ma è proprio Arbasino a rivendicare, anni dopo e orgogliosamente, sul Corriere della Sera il valore primigenio della locuzione, ricordandone la genesi virtuosa.

Nei suoi articoli di critica letteraria, apparsi negli anni Sessanta su L’Espresso, Arbasino si riferisce alle sue zie, appunto “le casalinghe di Voghera”, come matriarche, emblemi di un solido buon senso di matrice lombarda, una virtù di cui erano privi molti italiani. L’idillio domestico terminò nel 1943. Alla vigilia della Repubblica di Salò, la famiglia Arbasino fu costretta a ritirare nei territori partigiani sulle valli alte degli Appennini, dove il padre, impegnato attivamente nella Resistenza, fu arrestato dalle guardie repubblichine.

Questo costrinse l’educazione intellettuale di Alberto allo studio autodidatta dei reperti sentimentali della biblioteca di famiglia, i testi di Shakespeare, Goethe e Kafka, e alla lettura dei libri pubblicati in quegli anni da Montale, Vittorini, Coldwell, scambiati con gli amici in cambio di notizie su Proust.  La prima vera infatuazione di Arbasino fu per «il vecchio Freud [che] sfrutta i sogni e i desideri del fanciullino che è dentro di noi», per questo si iscriverà alla Facoltà di Medicina a Pavia, abbandonandola l’anno successivo per un complesso di incompetenza, per poi ripiegare a Milano su Giurisprudenza.

La brillante carriera accademica che ne seguì, forte dei suoi soggiorni alla Sorbonne di Parigi e della frequentazione dei corsi di relazioni internazionali tenuti ad Harvard da un allora giovane professore, poi Premio Nobel, Henry Kissinger (quest’esperienza è stata mirabilmente raccontata nel mastodontico America Amore, 2011), lo porteranno all’attenzione delle riviste letterarie.

Negli anni Cinquanta scrisse una sfilza di reportage dall’estero, interviste e resoconti culturali sulle riviste L’Illustrazione Italiana, Officina, Il Mondo, e nel ‘55 apparvero i primi racconti. Il primo, Distesa estate, pubblicato su Paragone poi confluito nella raccolta d’esordio, Le piccole vacanze (1957), avendo come editor in Einaudi un giovane Italo Calvino.

Nei ritratti di piccole esistenze provinciali del dopoguerra, Arbasino dipinge il rinnovamento socioculturale in quelle ragazze «favolose» e «deliziose», che in tenuta da tennis si muovono per le ville sepolte tra gli alberi, e somiglierebbero anche alla Micòl Finzi Contini di Bassani, se non fosse che sono antecedenti, oltre che più smaliziate e consapevoli; la storia omosessuale del racconto intitolato Giorgio contro Luciano, vissuta tra i viaggi e gli eccessi, supera in lungimiranza quell’omoerotismo censurato e sussurrato nella letteratura italiana di quegli anni, e trattato come tabù ancora da Bassani nel romanzo Gli occhiali d’oro, uscito addirittura l’anno successivo.


Nel 1959 Feltrinelli pubblicò il suo primo grande romanzo, L’Anonimo Lombardo, l’inizio alla prima della Scala, durante la famosa Medea della Callas del ‘53, di una storia d’amore intellettuale tra due uomini, un testo redatto con un sofisticato sistema di note in stile postmoderno, una lingua innovativa che doveva «ricreare sulla pagina il sound del linguaggio parlato» con echi del Parini e di Gadda. Di quest’ultimo, Arbasino fu grande amico ed estimatore, tanto da dedicargli un libretto, L’ingegnere in blu (2008) e da valergli l’appellativo di “nipotino di Gadda” da parte della critica, che gli riconobbe il medesimo lavoro condotto sulla lingua.

Nel 1963 aderì insieme a Umberto Eco, Nanni Balestrini ed Elio Pagliarani al Gruppo63, l’Avanguardia storica filomarxista, ma disimpegnata, seguace dello Strutturalismo; nello stesso anno uscì il celebre romanzo, Fratelli d’Italia, accolto subito come classico moderno. La storia di un viaggio in Italia, un grand tour in stile goethiano condotto nei luoghi dannunziani (Roma, Napoli, Capri, Firenze) di un gruppo di artisti in una commedia sociale, uno spaccato culturale impossibile da definire nello spettro dei generi letterari. Un poderoso tomo al quale Arbasino è ritornato più volte nel corso dei decenni – secondo quella sua tendenza di riscrivere i testi e ampliarli all’infinito – arrivando a triplicarne la mole fino alle oltre 1300 pagine.

Lo sperimentalismo arbasiniano trovò poi libero sfogo nel surreale «romanzo a frammenti mobili» del ’69, Super-Eliogabalo, sul tema delle illusioni e del fallimento del ‘68; e nel romanzo a tinte camp sul boom economico, La bella di Lodi (‘72), dal quale è stato tratto un magistrale film di Mario Missiroli con una giovanissima Stefania Sandrelli, nel ruolo dell’emancipata Roberta. Scrisse poi per il Corriere, per Repubblica, condusse un programma in Rai e si dedicò alla poesia, in Rap! e Rap 2.

La scrittura infinita di Arbasino, espansa, orizzontale, fatta di accumulo e catalogo ossessivo, lungi dall’essere considerata mero vizio o maniera, è un’idea di letteratura in progress, che si forma e si impasta con la vita, prima che la sua natura mortale abbia la meglio.