Non c’è ancora accordo sul cessate il fuoco fra le controparti libiche. Mentre il premier Conte ieri provava a recuperare in extremis una qualche centralità sulla crisi con un viaggio fra Turchia ed Egitto, a Mosca, dopo una giornata di trattative febbrili, il tentativo per raggiungere un’intesa è fallito: alla firma di Serraj per ora non si è aggiunta quella di Haftar. Ci vorrà ancora un po’ di tempo, ma è chiaro che intanto l’asse della mediazione su questa difficilissima partita si è spostato verso Oriente, con Mosca e Istanbul che come panzer procedono per accrescere la loro influenza in tutta l’area mediterranea. E la responsabilità non è solo dell’Europa, ancora una volta disunita al proprio interno, ma anche e soprattutto dell’Italia, il cui ruolo è andato via via impallidendo col passare dei mesi e con l’inanellarsi di azioni sbagliate.
Dalla fallimentare conferenza di Palermo del novembre 2018 alla carrambata di Palazzo Chigi della scorsa settimana, fino ad arrivare alla proposta di Di Maio per una missione di pace europea in Libia, purtroppo il governo italiano non ha fatto altro che provare a mettere il cappello su iniziative che, nel migliore dei casi, si sono concluse con un nulla di fatto e, nel peggiore dei casi, si sono concluse con un premier libico che, atteso a Palazzo Chigi, ha preferito – e con ragione – dare buca e tirare dritto verso casa sua. Rimane la sensazione alquanto spiacevole che più che altro da parte nostra si sia tentato di escogitare ribalte mediatiche, senza avere idee chiare su come aiutare la Libia a uscire da un conflitto che destabilizza tutto il Mediterraneo. La politica estera non si fa così, a onor di telecamera, se si vogliono ottenere risultati seri e durevoli. Per le iniziative spot, quelle che sistematicamente mobilitano i like e poi restano lettera morta, basta (e avanza) la politica interna.
La cattiva gestione della crisi libica non è purtroppo l’unico caso di insuccesso della nostra politica estera. Da quando i grillini sono al governo – prima con la complicità della Lega e poi del Pd – si è perso il conto dei pasticci compiuti. Il primo segnale giunse chiaro quando gli ex amici Di Maio e Di Battista si precipitarono ad appoggiare le frange violente dei gilet gialli francesi, mettendo a rischio i nostri rapporti, già non facili, con Parigi. Fu cristallino che nel partito di maggioranza relativa nessuno di quelli che contano sapesse cosa sono il diritto internazionale e il principio di non ingerenza, secondo cui gli Stati hanno il dovere di non interferire nelle questioni di politica interna di un altro Paese, tanto più se quel Paese è il nostro secondo partner commerciale. Poi venne il sostegno indiretto al sanguinario dittatore venezuelano Maduro, in discontinuità con tutti i Paesi democratici, che ci misero alla berlina.
E il culmine si raggiunse con la frettolosa firma dell’accordo strategico per la Nuova Via della Seta con la Cina, autentico dito negli occhi nei confronti degli alleati americani, che apre interrogativi inquietanti sul nostro futuro economico, energetico, infrastrutturale, tecnologico. Siamo stati l’unico paese europeo a firmarlo, come ricorda l’ultimo numero dell’Economist, e lo abbiamo fatto senza nemmeno aver dato un’occhiatina alla nostra bilancia commerciale, che ci vede guadagnare molto bene negli Usa e perdere molto dallo scambio con la Cina.
Poi non c’è da stupirsi se chi semina antiamericanismo raccoglie dazi. Ma anche con gli altri non siamo andati benissimo, basti pensare alla battaglia annunciata durante il Conte 1 per sospendere le sanzioni alla Russia e poi abbandonata in corso d’opera con conseguenze anche nella qualità dei rapporti con i russi, salvo essere stata ripresa estemporaneamente di recente, forse come diversivo. Per gli osservatori non può che essere evidente che la politica estera italiana è improvvisata, in mano a persone che magari hanno altre competenze, ma non quelle richieste per garantire al nostro Paese la necessaria continuità di azione. Il risultato? Siamo isolati, e penalizzati anche in termini di politica commerciale.
E trasciniamo nel gorgo della confusione la nostra diplomazia e la nostra intelligence, che da sempre godono di ampia credibilità. Siamo passati dai governi Berlusconi che, legittimati da un voto popolare forte erano in grado di mettere allo stesso tavolo Stati Uniti e Russia, far nominare Draghi alla Bce, firmare trattati di amicizia con la Libia, a governi improvvisati che gestiscono le questioni di politica estera per sentito dire, causando danni ai quali ci vorrà molto tempo per rimediare. Purtroppo in Libia, paese che ci vedeva interlocutori e mediatori riconosciuti, abbiamo raggiunto lo zenith. Lì, anziché mettere in campo la nostra storica capacità di influenza, abbiamo fatto un buco nell’acqua. Ognuno ha giocato la sua partita, noi ne siamo stati incapaci.
Ora Conte non ha trovato di meglio che convocare un tavolo con le opposizioni sulle crisi medio-orientali, dalla Libia all’Iran. Classicamente, dopo aver ignorato in tutto e per tutto le minoranze, ha deciso di coinvolgerle e collettivizzare la difficoltà in cui si trova. Il tavolo è convocato per oggi, ma le forze di opposizione dovrebbero pensare bene se prestarsi a questo gioco.
