Non ridurre la sua figura a mascotte identitaria
San Francesco d’Assisi, i valori di una festa nazionale che non dobbiamo sprecare
Il 4 ottobre torna festa nazionale: san Francesco non deve diventare un santino ma un modello civile di dialogo, fraternità e solidarietà.
“Francesco, va’ e ripara la mia casa”. L’imperativo che il giovane di Assisi udì davanti al crocifisso di San Damiano è stato letto dai biografi come invito a restaurare la Chiesa, ferita e bisognosa di rinascita evangelica. Giotto, nei suoi affreschi, lega questa vocazione al sogno di papa Innocenzo III, dove un piccolo uomo sostiene il palazzo del Laterano in procinto di crollare. Un’esigenza riformatrice che oggi può tornare a interpellarci con forza, in chiave di attualizzazione non banale.
Nell’Italia segnata da polarizzazioni estreme e da conflitti verbali tossici, quel richiamo può diventare un appello civile: Francesco, ripara la casa Italia. Non è un caso se il presidente della Repubblica Sergio Mattarella ha più volte evocato la necessità di “ricostruttori” per un Paese esposto a crepe sociali, economiche e politiche nel mezzo di una crisi delle democrazie occidentali.
Ricostruire significa quindi non brandire martelli ideologici, ma scegliere la semplicità di gesti e politiche che sappiano farsi dialogo, incontro, cura dell’altro; rispetto delle opinioni, correttezza dialettica, abbassamento dei toni incendiari. Siamo stanchi di valori proclamati sui balconi – come gli slogan dell’“andrà tutto bene” durante il Covid – per poi essere rinnegati non appena varchiamo l’uscio di casa. La figura del poverello d’Assisi, ancorata alla concretezza dell’attenzione agli ultimi e a uno stile di vita di nobile semplicità, non è solo una provocazione contro le derive divisive del nostro tempo ma un modello di fraternità ed empatia quotidiana.
Il 4 ottobre torna dunque ad essere festa nazionale, non come semplice aggiunta al calendario, ma come monito politico e culturale che parla all’Italia di oggi, riportando al centro una figura iconica e complessa, appartenente tanto alla tradizione cristiana quanto al patrimonio civile; una presenza capace di interrogare la nostra identità collettiva e di stimolare la memoria in un tempo smemorato. Questa festa non nasce dal nulla. Nel 1958 fu istituita come solennità civile (senza giorno di vacanza); nel 1977, in piena stagione di austerità seguita alla crisi petrolifera, ne furono soppressi gli effetti sull’orario lavorativo. Nel 2005 divenne anche Giornata della pace, della fraternità e del dialogo. Oggi una nuova legge la riporta a festa nazionale, con prima applicazione dal 2026, e lo fa con una narrazione che insiste sulla dimensione “civica” di Francesco: fraternità universale, pace, custodia del creato.
No a mascotte identitaria
In un Paese attraversato da conflitti culturali e fragilità sociali, il santo di Assisi può diventare un collante valoriale ma proprio qui sta la vera sfida: non ridurre la sua figura a mascotte identitaria bensì riconoscerlo come patrimonio comune, di credenti e non credenti.
Negli ultimi mesi due libri hanno rilanciato la sua attualità. Aldo Cazzullo, con Francesco il primo italiano (HarperCollins), propone un racconto che unisce freschezza narrativa e visione storica: il santo come padre dell’umanesimo, inventore del presepe, primo poeta in volgare, uomo che restituisce all’Italia la sua parte migliore. Alessandro Barbero, con San Francesco (Laterza) ha invece scelto di scomporre le fonti offrendo un Francesco meno oleografico e più problematico: fragile e carismatico, scandaloso e insieme integratore, un uomo che la Chiesa dovette per certi versi “normalizzare” per non lasciarsi sfuggire dalle mani una rivoluzione nata da un moto autentico evangelico utile però a contenere quei movimenti pauperistici come i catari che erano considerati fenomeni, diremmo oggi, massimalisti e fondamentalisti e quindi una controparte rispetto alle gerarchie costituite. Al contrario, Francesco ha riformato ponendosi non extra ecclesiam ma dentro il tessuto della sua comunità; e questo suo essere “lievito” che fermenta la massa” (Mt 13,33) ci restituisce l’icona del vero riformatore, quella cioè di lavorare dal di dentro del sistema per rinnovarlo e riportarlo alla bellezza delle sue origini.
I due saggi offrono due approcci diversi ma complementari: Cazzullo evidenzia il mito che ci unisce, Barbero la complessità che ci impedisce di ridurlo a icona comoda.
Una festa a senso se…
Ripristinare il 4 ottobre non è questione di buste paga o di produttività, come pure ha provocatoriamente osservato Antonio Mastropasqua su questo giornale. Conta piuttosto il valore etico: una festa ha senso se diventa occasione di esercizio civile. Mense aperte, scuole che rileggano il Cantico delle creature in ecologia integrale concreta, città che pongano il sostegno ai poveri in cima all’agenda.
Francesco d’Assisi non accusava mai e non si poneva come controparte ma apriva nuove possibilità di senso. La sua attualità sta qui: ricordarci che la felicità non è accumulo di beni né consumo acritico di risorse, ma libertà di amare e di vivere senza calcolo. Un modello esistenziale paradossalmente urgente ieri come oggi.
La tentazione dell’appropriazione politica resta alta, in tempi di strumentalizzazione dei messaggi religiosi: è necessario vigilare perché nessuno “tiri per il saio” Francesco, ma si colga piuttosto l’orizzonte di senso che offre. La festa sarà autentica se abitata senza retorica mielosa e per questo sono godibili i saggi a cui ho accennato perchè ci offrono un Francesco attualissimo, sia con la leggerezza narrativa di Cazzullo che attraverso la serietà critica di Barbero. Entrambi ci consegnano non un santino ma un compagno di strada per ritrovare la perfetta letizia non nell’eccezionale, ma nell’umile ostinazione di restare umani.
E, come disse papa Francesco, per restare davvero fratelli tutti.
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