Riscoperta degli autori
Siamo tutti orfani di Carlo Levi e della sua idea di libertà
L’azionismo, benché non immune da un tono predicatorio e professorale (come ha rilevato lo stesso Norberto Bobbio, che ne fece parte) – e lacerato da spinte troppo divergenti al proprio interno -, rappresentò nel nostro Paese una fiammeggiante meteora: dava più importanza all’ethos diffuso che ai sistemi elettorali, più agli stili di vita che ai governi, più all’individuo che alle organizzazioni e agli stati-idoli. Levi, intellettuale critico e mai “organico”, parla molto propriamente di una generazione che “ha vinto in sé il fascismo”.
E certo fa impressione quell’immagine di Parri, proprio ne L’Orologio, fra i due volti cardinalizi e teologali di Togliatti e di De Gasperi, quasi Pinocchio tra il Gatto e la Volpe… La rimozione delle posizioni politiche di Levi ci ricorda come nel ‘900 il marxismo abbia monopolizzato ogni critica alla borghesia e all’esistente. Già nel 1932 Levi scriveva che «il nome stesso di comunismo ha una capacità di attrazione per il suo carattere mitologico di società futura», mentre il programma di Giustizia e libertà poteva lasciare insoddisfatti molti per la sua “mancanza di miti”. E invece proprio l’idea della politica come autogoverno enunciata dal socialista libertario Levi, era molto più “a sinistra” dei programmi del Pci, come gli riconobbe onestamente il comunista Aldo Natoli.
Levi infatti manterrà una simpatia verso tutte le esperienze consiliari, di un potere cioè esercitato dal basso. Ma insisto su un punto: è solo in queste esperienze di autogoverno che si forma l’individuo consapevole e responsabile, fondamentale alla democrazia; e soprattutto capace di modificarsi qui ed ora, senza rinviare al futuro l’emancipazione della società (il libro più bello di Vittorio Foa, ex azionista, si intitola La Gerusalemme rimandata).
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