Sindrome della capanna o del prigioniero: ecco perché non vogliamo uscire

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Il 4 maggio è stato atteso come un “pronti, partenza, via!”, come un “liberi tutti” dopo il lockdown causato dalla pandemia coronavirus che ha costretto in casa milioni di italiani. E quindi, effettivamente, milioni di persone sono uscite di casa per tornare sul posto di lavoro, andare a trovare i propri congiunti o presunti tali, dedicarsi allo sport seppur in forma individuale. Oppure solo per tornare a uscire, dopo tanto tempo. Non tutti però. O non tutti a cuor leggero. Perché questi 57 giorni di restrizioni hanno cambiato le abitudini della gente anche nel profondo. Fino a non fare desiderare a molti, come paventato, di uscire all’aria aperta. E a causare, al contrario, un effetto inverso. Quello che è stato definito come sindrome della capanna o sindrome del prigioniero.

La definizione viene dagli Stati Uniti, da regioni nelle quali l’inverno è lungo e rigido, e indica la tendenza a evitare il contatto con il mondo esterno dopo un lungo periodo di isolamento. È quindi tornato utile per descrivere le sensazioni scaturite in molti dopo la prima fase dell’emergenza coronavirus. Di chi, a causa di paura o di ansia preferisce, o preferirebbe, continuare il proprio isolamento, restare a casa, evitare i contatti con il mondo fuori. Non è una tendenza che ha molto a che fare con l’agorafobia, piuttosto con l’abitudine e con la voglia di restare in una propria comfort-zone. Niente di nuovo, in realtà, come ha fatto notare a El Pais Timanfaya Hernández, del Colegio Oficial de Psicólogos di Madrid: “Siamo al corrente di casi di persone che, dopo un ricovero o una fase di ospedalizzazione, perdono sicurezza e provano paura verso quello che è il mondo fuori”. Una specie di meccanismo di difesa che anche il coronavirus ha innescato. “Stiamo notando un numero  sempre maggiore di persone angosciate dall’idea di tornare a uscire – spiega Hernández – Abbiamo stabilito un perimetro di sicurezza e adesso dobbiamo abbandonarlo in un clima di incertezza”.

Secondo il giornale spagnolo anche i più piccoli possono essere coinvolti dal fenomeno. “Quando è arrivato il giorno in cui potevo salire non ne avevo voglia, sto bene a casa”, ha raccontato al quotidiano spagnolo Judit, 12 anni. Che oltre a giocare, a fare i compiti, ad allenarsi e a guardare le serie tv sta gli “amici con le videochiamate, non è la stessa cosa ma stiamo bene. Credo che potrei vivere così per molto tempo ancora: sono come delle vacanze ma senza uscire di casa”.

Del fenomeno, che comunque viene commentato come poco più che passeggero, aveva scritto anche Vice, commentandolo con la psicologa e terapeuta Laura Guaglio: “L’idea di sentirsi a disagio in una situazione che prima era percepita come la normalità può creare in noi un senso di inadeguatezza. Ci si domanda ‘Come mai prima riuscivo (a uscire) e adesso no?La differenza sostanziale è che adesso la persona è stata sottoposta a un evento stressante che, nel bene o nel male, ha modificato il suo modo di comportarsi, di vedere le cose. Probabilmente è una modifica temporanea, ma bisogna prenderne atto”.