Sinistra riformista oltre il campo largo, la rivoluzione che deve compiere il Pd: manca un programma fondamentale per Rifare l’Italia

ELLY SCHLEIN POLITICO GOFFREDO BETTINI POLITICO

Riformismo, una parola che ha perso significato, sangue. Tutti sembrano o si dicono riformisti. destra e a sinistra. Ma per fare cosa? Guardiamo a sinistra. Piccola premessa, indispensabile.

Dopo la Comune di Parigi (1870) ed il suo tragico fallimento, Engels e lo stesso Marx si convinsero che la via per la rivoluzione sarebbe stata lunga e non sarebbe bastata una scorciatoia militare. Bisognava convivere col capitalismo e spostare gli equilibri gradualmente ma sostanzialmente. Furono allora i primi vagiti della socialdemocrazia riformista. Poi vennero la Prima Guerra mondiale e la Rivoluzione in Russia. L’opzione militare riprese credibilità e una grande suggestione ma non passò in Occidente, anzi presero corpo i fascismi. I riformisti si convinsero ancora di più della via gradualista ma sostanziale. Una via in salita sia a destra che a sinistra. C’erano i fascisti e i nazisti ma anche il comunismo statalizzato che non era più una velleità ma una realtà. Dopo la Seconda Guerra Mondiale il riformismo socialista e cattolico vissero un’epoca d’oro con lo Stato sociale ispirato alle teorie economiche di John Maynard Keynes. Teorie tradotte nei vari Stati europei in forme diverse, più o meno coerenti fino a quando non iniziò una fase calante ininterrotta provocata dalle crisi energetiche, la fine del colonialismo, le rivoluzioni tecnologiche, la globalizzazione che poco a poco hanno portato inesorabilmente alla rivincita culturale delle destre liberiste e oggi al populismo, al sovranismo, al ritorno dei fascisti, alle autocrazie.

Cosa resta quindi del riformismo – una via democratica, gradualista ma sostanziale e radicale di cambiamento nella giustizia sociale – a sinistra? E se resta qualcosa da dove deve ripartire, posto che il capitalismo attuale, tecnologico, violento, egoista, finanziarizzato, non accetta compromessi? Riformismo, oggi, è una strategia politica, sociale e culturale che su scala nazionale e mondiale indirizza la rivoluzione tecnologica verso la tutela della dignità umana e del suo equilibrio con la Natura e ne contrasta la sopraffazione e la distruzione.
Stringo all’Italia perché credo che il Partito democratico sia nato per questo grande obbiettivo storico – un nuovo riformismo – e non solo per costruire con tenacia una alleanza numerica che possa vincere le elezioni più vicine. Chiamo in causa Filippo Turati, come mi è già capitato di recente. Il 26 giugno del 1920, in un momento particolarmente critico della democrazia parlamentare italiana, durante il dibattito per l’insediamento dell’ultimo governo Giolitti – che sarebbe durato un anno – Filippo Turati tenne un lungo discorso, poi pubblicato col titolo “Rifare l’Italia” che esponeva il programma socialista riformista davanti ai vorticosi cambiamenti seguiti alla Grande Guerra.

Nel pieno di un clima sempre più arroventato, Turati cercò di far sentire la voce del socialismo riformista con un discorso che rappresentava una “summa” completa di un “Programma di azione socialista”. Un discorso ricco, complessivo e ancora attuale, per chi volesse rileggerlo, che disegnava il profilo di un Paese ancora possibile, più moderno, più giusto, più democratico. Un programma riformista e al tempo stesso rivoluzionario. Turati sperava ancora, in quel momento di poter contare, almeno in parte, sul blocco sociale riformista operaio e borghese del 1904-1905, per dare una base alla sua proposta. Si illudeva, tutto era cambiato nel 1920 ma quel documento fu un vero capolavoro ed andrebbe riletto, divulgato e studiato ancora oggi. Perché nella situazione italiana di oggi c’è la necessità di una sinistra riformista, capace non solo di difendersi dall’onda nera ma di collocare al centro degli attuali sconvolgimenti un suo punto di vista critico ed una proposta costruttiva in grado di unire il Paese, rafforzare l’Unione Europea, salvare la democrazia e la pace. Le sorti della nostra democrazia, come nel resto del mondo, sono incerte.

Le sue basi, per come le abbiamo conosciute e per come si sono formate dal ‘700 in poi intorno al ruolo dei Parlamenti e dei partiti politici, sono diventate più fragili per l’irrompere delle nuove tecnologie, di nuove forme partecipative o espressive dell’agorà pubblica, di enormi ingiustizie sociali, dell’impatto distruttivo di un turbo-capitalismo che ne ha svuotato dall’interno le basi morali e materiali, della dirompente questione climatica che innesca guerre e gigantesche migrazioni. Percorriamo con altrettanta incertezza questo crinale anche in Italia.
Può bastare una lotta centrata sul “ciò che non siamo e ciò che non vogliamo?”. La destra ha messo in campo una sua proposta. Un suo progetto distruttivo, che stravolge le basi costituzionali della democrazia repubblicana e la continuità storica e ideale tra il Risorgimento e la Resistenza. Ma ha un progetto che parla al Paese senza troppi documenti o convegni. Procede diretto. Ora, Elly Schlein ha costruito con determinazione – anche quando questa strada sembrava perdente o impraticabile – la via dell’unità tra tutte le forze dell’opposizione, un “campo largo” che ieri era poco meno che un’astrazione e oggi è un fatto concreto, a portata di mano.

Elly ha accompagnato a questo la ricerca di dialogo e interlocuzione con nuove generazioni e sensibilità che fa oggi del Pd il partito più popolare proprio tra i giovani, cosa che non accadeva dal 2008-2009, gli anni in cui esso nacque con Walter Veltroni. Il “campo largo” indicato da tempo da Goffredo Bettini, sembra prendere corpo. Manca ancora un “programma fondamentale” per l’alternativa; un discorso al Paese che non può che partire dal PD, di forte profondità riformista e che faccia comprendere come noi vorremmo “Rifare l’Italia” – evocando Turati- su una base di maggiore giustizia sociale, di una democrazia più forte e della pace.

Per brevità elenco velocemente alcune idee, meritando esse approfondimenti e ampliamenti ben maggiori:
1. Una riforma dell’ordinamento dello Stato e degli enti territoriali. Dobbiamo affrontare senza pudori la crisi irreversibile del parlamentarismo italiano che ha generato un Parlamento centrale sulla carta ma compresso nei fatti ed un Esecutivo artificialmente invasivo nel campo legislativo, ma debole perché non basato su tempi certi di durata. La sola via di uscita sembra a me quella di un sistema istituzionale ed elettorale alla francese: semipresidenziale, maggioritario, uninominale con il doppio turno. Non ha praticabilità immediata questo discorso? Si deve partire dalle idee e non dai numeri e soprattutto dalla “gente” che in grande maggioranza preferirebbe questo sistema.

2. Le Regioni debbono essere ridotte ad un massimo di 12. Troppe regioni sono un peso per la spesa pubblica ed opprimono l’autonomia del Comuni. Si torni, poi, alle Province elettive e si dia un ordinamento speciale con potestà legislative concorrenti alle tre grandi città metropolitane a vocazione internazionale come Roma, Milano e Napoli. Partendo da Roma per la quale il percorso è già in cammino e sarebbe assurdo opporsi.

3. Per inverare il nesso tra transizione ecologica e giustizia sociale servono poderosi investimenti pubblici nei trasporti, nella sanità, nella scuola, nell’agricoltura, nell’edilizia, nell’industria, per la quale – tra le tante questioni aperte – va detto con nettezza che il Pd si batte per nazionalizzare ILVA a Taranto e difendere l’acciaio italiano attraverso una riconversione sostenibile degli impianti, possibile solo attraverso la mano pubblica. L’ Europa non sarebbe pregiudizialmente contraria.

4. Tali risorse, sotto forma di incentivi o diretti investimenti pubblici, possono derivare, oltre che dai programmi europei attuali e futuri, da un forte e nitido ribaltamento dell’ingiusto e dispersivo sistema fiscale italiano. Occorre un segno di classe alla proposta della sinistra, perché 100 miliardi di evasione non consentono alcuna azione riformista né radicale, né moderata, Nel quadro della riforma fiscale, va messa al centro una patrimoniale sulle grandi rendite e i grandi patrimoni, oltre i 10 milioni di euro. Una misura che può garantire ogni anno circa 15 miliardi in più per il bilancio dello Stato da destinare alla riconversione ecologica “giusta”, per sollevare le condizioni delle classi popolari e dei ceti medi nel campo della casa e della mobilità, in primo luogo, e per il settore agricolo spingendolo ad abbandonare la dipendenza dai sussidi ambientalmente dannosi e a superare i limiti di una piccola proprietà ereditata dalla riforma agraria degli anni ’50 e a rilanciare la forma produttiva cooperativa e consortile, contrastando il dramma della produzione sotto costo. In questo l’attualità del discorso di Turati è impressionante.

5. A Davos i super ricchi del mondo hanno riconosciuto la necessità di una loro maggiore partecipazione alla contribuzione fiscale. Solo in Italia l’espressione “patrimoniale per i grandi patrimoni” genera paure e resistenze persino nel campo democratico e progressista.

6. Serve una nuova Legge Urbanistica Nazionale per il governo del territorio. Una legge semplice ma forte e di pochi inderogabili principi che contenga le linee per la rigenerazione urbana e l’azione sulla casa e che sollevi le periferie e le aree interne gravate dall’insormontabile ostacolo del basso valore del mercato immobiliare. Deve finire il balletto retorico e inconcludente sulle norme edilizie speculative e predatorie della cosiddetta “rigenerazione urbana” che a Milano e non solo hanno dimostrato il loro fallimento. In sede europea il Pd deve battersi per cambiare quella parte della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea che non individua con chiarezza il valore sociale della proprietà privata come scritto invece nelle Costituzioni italiana e tedesca. Questo sarebbe molto importante per un equo uso dei suoli.

7. Deve essere costituita un’Agenzia Nazionale contro le calamità naturali e per la lotta al dissesto idrogeologico (ANCAN) che integrando il contributo delle Regioni e delle Autorità di Distretto pianifichi e realizzi gli interventi di contrasto e adattamento in ordinario e in straordinario senza inseguire gli eventi volta per volta. Ancor meglio sarebbe attribuire alle Autorità di Distretto funzioni operative e attuative degli interventi e non solo di pianificazione, accorciando tempi e procedure per la lotta al dissesto idrogeologico.

8. Un potenziamento della pubblica amministrazione nei settori strategici della sanità, della scuola e dello Stato con un forte innesto di competenze tecniche. C’è bisogno di medici, insegnanti, ingegneri, architetti, economisti, chimici, fisici, geologi. In numero maggiore e meglio retribuiti. Su questo punto si deve mettere nel conto anche un contrasto con indirizzi europei le cui norme sui vincoli di bilancio, ingoiati dal Governo Meloni, vanno rimessi in discussione.

9. Una politica internazionale che restituisca all’Italia il suo naturale ruolo di promozione diplomatica e di mediazione, in primo luogo nel bacino strategico del Mediterraneo che apra con l’Unione Europea il dossier delle politiche per l’immigrazione e l’accoglienza in una ottica di governo europeo, solidale e coordinato e spinga per la creazione di un sistema di difesa europea proponendo un massimo del 2% del PIL per le spese militari nell’ambito della Nato, vincolato alla costruzione di una comune difesa europea e ad una riforma dell’Alleanza Atlantica nella quale l’Unione Europea ne rappresenti la seconda gamba.

Questa è una base minima di confronto per un programma di alternativa di governo e per costruire anche nel Partito Democratico la voce di una sinistra aperta, plurale, riformista che rinnovi la vocazione critica del pensiero socialista e comunista democratico e completi il profilo del pluralismo interno del Pd. Serve un “Programma Fondamentale” per “Rifare l’Italia” da costruire in un largo confronto politico e popolare tra tutte le forze dell’alternativa. Politiche, civiche e intellettuali. Una “Costituente per l’alternativa e per un nuovo soggetto politico dei Democratici”.