Il caldo picchia ferocemente a mezzogiorno, l’ultima domenica di luglio, a Tor Pignattara, un quartiere multietnico di Roma. E con Maddalena Presenza ci rifugiamo nel bar ‘Next Age Cafe’ per trovare un po’ di refrigerio intorno a due bicchieri d’acqua con ghiaccio e una buccia di limone. L’argomento della nostra chiacchierata è la vita quotidiana nel nostro quartiere. Lei è nata e cresciuta a Tor Pignattara. È restauratrice di opere d’arte e lavora alla Coop di Largo Agosta. Frequenta con entusiasmo la parrocchia di S.S. Marcellino e Pietro. Ma soprattutto è punto di riferimento nel suo caseggiato per ogni problema sociale che insorge. Sette anni fa, aiutò Simona Mainieri a creare un gruppo Facebook che si chiama ‘+ Vicini’. Un’invenzione stupenda: una rete on line di persone che si relazionano e collaborano come nei vicinati di una volta.
La famiglia di Maddalena, come tante altre, ha una storia di emigrazione. La sua è arrivata negli anni ‘50 dalla Campania. Altre dalle diverse regioni del Centro Sud e del Nord Est. Storie di disagio sociale e adattamento e, nello stesso tempo, di progressivo miglioramento delle condizioni di vita. Una conquista faticosa, facilitata dal fatto che l’Italia è un popolo di contadini. A Roma non si è mai consolidata una vera e propria società industriale. Sicché, gli emigranti non si lasciavano alle spalle una cultura molto diversa. La cultura contadina ha fornito quella sorta di ammortizzatore segreto delle crisi sociali ad ampio raggio, che in altri contesti sociali e storici hanno dato luogo a fenomeni di sradicamento e alienazione.
Anche ai migranti attuali che arrivano dall’Est e dal Sud del mondo non può essere negato l’accesso. Abbiamo bisogno di loro. Chi dice che possiamo farne a meno non affronta la realtà della nostra demografia. Ma ad essi nemmeno vanno negati la pressione delle quote e il dolore e il piacere di diventare italiani ed europei. Abbiamo bisogno di loro nella quantità richiesta dalle nostre imprese e non già spalancando le frontiere a chiunque. Chi dice il contrario non compie un atto di generosità ma vuole il male di quelle persone. Non dobbiamo impedire agli immigrati di ricordare le loro culture di origine e di avere nostalgia delle terre di provenienza. Ma essi devono poter coltivare l’orgoglio di sentire come propria la nuova patria che li ha accolti. Questo, tuttavia, difficilmente può avvenire dove la popolazione immigrata tende quasi a superare quella autoctona. “È stato un errore – mi dice Maddalena – permettere che a Tor Pignattara si concentrassero gruppi così consistenti di immigrati bengalesi, cinesi, magrebini e sudamericani. E ancora oggi non si pone alcun freno a tale fenomeno”.
Un errore che provoca molto disagio. Vediamo come questo si manifesta nel concreto. Incominciando con il racconto di qualche caso limite: “Finalmente è stato chiuso il ‘Kokus Bar’ di via Casilina. I giornali lo hanno definito stupidamente ‘storico’, ma è solo un famigerato ricettacolo di gente violenta e senza scrupoli gestito da una famiglia sudamericana. Questa volta il questore ha ritirato la licenza e così quel locale non potrà più riaprire, con nuovi titolari, com’è avvenuto altre volte che ne è stata disposta la chiusura per schiamazzi notturni, sparatorie, scontri d’auto, atti di violenza di ogni tipo. Da anni ho seguito questo caso increscioso con telefonate continue al commissariato di zona. E ogni volta la solita pretesa delle forze dell’ordine di sporgere denuncia mettendo a rischio la mia incolumità. Ci sono ancora altri due bar a Tor Pignattara e una decina in altri quartieri di Roma dove la mala sudamericana la notte si dà appuntamento”.
Passiamo ora a situazioni di disagio più comuni: “Diversi bengalesi affittano appartamenti per metterci dentro quattro o cinque persone per vano, riscuotendo un canone. Lo fanno anche i cinesi. Ci sono, poi, casi di occupazione abusiva, da parte di immigrati, nelle palazzine di proprietà degli enti pubblici. Anche qui, gli occupanti affittano i posti letto e loro se ne vanno a cercare altre case popolari libere. È inutile raccontare che vita si può fare in queste condizioni. Il viavai continuo delle persone per le scale e negli ascensori. L’indisponibilità a parlare l’italiano, pur avendolo in qualche modo appreso. Il rinchiudersi nelle loro reti etniche che sono spesso di protezione, ma nascondono anche attività al limite della legge”.
Se ti riferisci a qualcosa in particolare, spiega di che si tratta: “Sono soltanto impressioni, indizi che andrebbero approfonditi da chi è preposto ai controlli. Ad esempio, spuntano continuamente nuovi negozi di frutta e verdura gestiti da bengalesi o da magrebini. Alcuni a distanza di pochi metri da altri punti vendita dello stesso tipo. Ci sono norme che stabiliscono le distanze o valgono solo per gli italiani? In alcuni casi subentrano a esercizi commerciali dismessi dai nostri connazionali per gli affitti proibitivi dei locali. Dove prendono i soldi per pagare il canone? I prodotti agricoli venduti non sono italiani ma arrivano dai loro Paesi di origine. Quali percorsi fanno? Con quali controlli igienico-sanitari? Forse sono coltivati in Italia da imprenditori loro connazionali? Dove e come? In alcuni negozi di Tor Pignattara vengono a fare la spesa immigrati che abitano anche in altri quartieri di Roma perché trovano prezzi più convenienti. Ma in altri non si vede entrare nessuno. Come fanno a rimanere aperti? Sono tutti interrogativi senza risposta. Quando la micro illegalità è così diffusa e tollerata, è più facile che prosperi anche la macro e che tra i due fenomeni ci sia un legame”.
È come se la forza pubblica, anziché vigilare e far rispettare le leggi, chiuda un occhio e lasci correre. Meglio lasciarli in attività commerciali, anche se non in piena regola, che a gironzolare senza far niente. Un atteggiamento che potrebbe sembrare permissivo ma che, in realtà, vuole solo prevenire il peggio. Maddalena non è d’accordo: “Anche in altri ambiti è la stessa storia. Spesso le famiglie di immigrati si ritrovano nei parchi a consumare i pasti. Le donne, quando ci sono loro nel gruppo, lasciano i prati puliti. Ma se si riuniscono solo uomini, i resti del pasto rimangono dove capita. E questo comportamento incivile, oltre che ledere il decoro pubblico, costituisce un serio pericolo per i bambini e i cani che potrebbero ingoiare ossi di pollo gettati per terra dappertutto”.
È di qualche mese fa il caso Monfalcone, dove quattro studentesse di una scuola secondaria entrano in classe con il ‘niqab’, il velo integrale che lascia scoperti solo gli occhi. E la preside lascia correre con questo argomento: ‘Il divieto può indurre le ragazze a lasciare la scuola, mentre l’istituzione raggiunge il suo scopo quando l’allievo consegue i cinque anni di studio’. Maddalena non è convinta che questa sia la strada per integrare gli immigrati: “Non si tratta di vietare il velo islamico. La religione non c’entra nulla ma in questione sono le regole che il nostro stato si è dato. In Italia esiste una legge del 1975 che vieta a tutti di andare in giro irriconoscibili. Questa norma va rispettata da chiunque senza eccezioni. A Tor Pignattara non si vedono bambine e ragazze andare a scuola velate fino agli occhi. Ma sono tante le donne adulte che portano il ‘niqab’. Non dovrebbe essere consentito. Se non si conoscono le leggi italiane, bisogna impararle soprattutto a scuola”.
La nostra chiacchierata finisce qui. L’impressione che ne ricavo è che le agenzie educative (famiglie, chiese, scuole, università) faticano a trasmettere le regole di convivenza. E chi dovrebbe pretenderne il rispetto, non lo faccia a sufficienza. Ci sono, poi, tanti cattivi maestri: quelli che attribuiscono all’Occidente tutte le colpe dei mali che ci sono nel mondo. E così finiscono per instillare nei giovani extra-occidentali l’idea che essi siano in credito, che abbiano diritto a un risarcimento. Un’idea sbagliata che induce a non riconoscere le regole del Paese ospitante ed è fonte di conflitti anziché di convivenza. I quartieri delle nostre città rischiano così di diventare delle polveriere.
