Il 22 agosto di un anno fa ci lasciava Ottaviano Del Turco. Il Grande Sonno lo liberò dalle sofferenze che lo avevano privato di una vita degna di essere vissuta. Ottaviano, però, continuerà a vivere nell’affetto di chi l’ha accudito lungo tutto il suo calvario. Aveva iniziato a morire ben 14 anni prima, in quel 14 luglio 2008 quando la polizia giudiziaria si era presentata, in ore antelucane, nel suo buen retiro di Collelongo (un paese abruzzese lungo una strada che termina lì) per arrestarlo sulla base di accuse gravissime e infamanti. Allora, Ottaviano era presidente della Regione Abruzzo. Questa fu l’ultima tappa di un cursus honorum folgorante.
Accusato di corruzione dal boss della sanità privata abruzzese Vincenzo Angelini, a cui la giunta Del Turco aveva tagliato le unghie del potere sull’intero sistema sanitario regionale, Ottaviano si è sempre dichiarato innocente. Il suo avvocato Gian Domenico Caiazza raccontò come furono costruite le sue imputazioni. In pratica, fu il procuratore capo Nicola Trifuoggi a imboccare l’accusatore di Ottaviano. Dagli atti del processo risulta che Angelini era indagato per aver sottratto dei milioni di euro alle sue aziende. Il procuratore gli chiese se fosse stato costretto a compiere questo reato allo scopo di pagare la politica. E lo invitò a pensarci bene, perché in questo caso – da potenziale indagato – Angelini sarebbe divenuto persona offesa, vittima, concussa da Del Turco e sodali. Dopo qualche giorno – raccontò Caiazza citando i verbali – Angelini ritornò in Procura, per dire che a ben riflettere, oltre sei milioni di quei soldi che aveva ritirato in contanti dalle sue aziende li aveva versati alla vorace banda Del Turco. Poi aggiunse: “Sono qui questa sera perché mi è stato assicurato che sarei stato compreso per quello che più avanti dirò”. In sostanza, ad Angelini era stata promessa l’impunità se avesse eseguito gli ordini espressi sottoforma di consigli e suggerimenti. E lui si sentì autorizzato a rivendicarla con un avvertimento paramafioso.
La vicenda giudiziaria di Ottaviano Del Turco è andata avanti per un decennio. Le Corti che hanno esaminato il caso hanno, in pratica, “sfogliato la margherita” dei reati di cui era accusato: corruzione, concussione, truffa, falso e associazione a delinquere. E, ovviamente, a ogni “petalo” strappato corrispondeva una riduzione della pena. Alla fine del calvario processuale, Del Turco fu ritenuto colpevole di “induzione indebita a dare o promettere utilità” e condannato in via definitiva. L’induzione era un reato di nuovo conio, introdotto dall’abominevole legge Severino nel 2012; pertanto non era in vigore al momento dei fatti.
Ottaviano è morto malato, totalmente inabile, con mezzi economici modesti. Ci fu anche un tentativo di privarlo del vitalizio maturato da parlamentare: una decisione disumana che suscitò reazioni critiche diffuse, e che per fortuna fu accantonata per la vergogna. Non ho mai creduto nella colpevolezza di Ottaviano. Standogli vicino, ho potuto constatare che quando ti cade il mondo addosso – senza che tu riesca persino a capire il perché – la ferita più profonda non è inferta dalla privazione della libertà, dalla gogna che è l’altra faccia della medaglia della malagiustizia, ma dal non essere creduto e quindi evitato dalle persone con cui hai intrecciato la vita nella quotidianità.
Purtroppo Del Turco non è il solo militante che, incappato nella trappola delle procure, fu abbandonato dalle istituzioni della sinistra. Persino dalla sua Cgil. Ottaviano era un laico, ma credo che gradirà la promessa contenuta in un brano evangelico: “Beati i perseguitati per la giustizia, perché di essi è il regno dei cieli”.
