Una serata a Oakland, tra vento, treni e squali che amano il jazz

Tutti a sbavare dietro Jack Kerouac per decenni e nessuno che si sia ricordato di un altro Jack, meno fortunato. Parlo di Jack London, noto in Italia come scrittore per ragazzi. Quello di Zanna Bianca per intenderci. Il primo libro sulla strada l’ha scritto lui, altro che quel fighetto canadese kerouaco. Jack London era uno degli hoboes, quel tipo di gente di cui si è accorto un pezzetto del grande pubblico, anni fa, dopo la vittoria dell’Oscar da parte del film Nomadland. London li ha raccontati per primo, questi vagabondi, questi errabondi che giravano gli Stati Uniti montando al volo sopra i treni merci fuori dalle stazioni e scendendo dove gli sembrava fosse il momento giusto prima di un’altra certa stazione ferroviaria.

Jack London è stato uno di loro, poi è partito verso il freddo nord alla ricerca dell’oro e della fortuna, ma non ha combinato nulla di buono in questo senso. Si mise a scrivere, tentò di fare proseliti politici predicando le teorie socialiste, insegnò a molti a fare un fuoco nella foresta, dando informazioni meno generiche e metafisiche di quelle che forniva David H. Thoreau per la vita nei boschi. Bene, che c’entra Jack London col jazz? Forse niente. Tuttavia lo scrittore era originario di Oakland, California. E proprio qui, nella East Bay di San Francisco, c’è un jazz club formidabile. Niente a che vedere con i locali fumosi, stretti e inquieti di New York. Piuttosto un ristorante dove ognuno deve stare seduto rigorosamente al suo posto, i camerieri non desiderano essere disturbati, ma amano disturbare per farti consumare a più non posso. In compenso l’acustica è buona e proprio fuori da lì può capitare di stare fermi per decine di minuti, perché un lunghissimo, interminabile treno merci sta passando sulla strada e, con la sua sfilata di vagoni, divide Oakland in due parti, impedendo a chiunque di andare, per esempio, verso il porto. O viceversa verso la città.

Non so se fossi in serata di antipatie, ma una delle sere in cui sono stato allo Yoshi’s, cantava Dee Dee Bridgewater e io non riuscivo ad ascoltarla. Non mi interessava, ero insofferente, avevo l’uggia. Mi sentivo come uno squalo che non riesce a star fermo, e se sta fermo muore. Lì per lì non riuscivo a capire quale fosse la causa di questa irrequietezza. Lo capii poco dopo, uscendo. Io semplicemente non vedevo l’ora di stare per una decina di minuti sulla strada a veder passare lentamente quel treno merci notturno che non finiva più e che non so dove andasse. Alle stazioni normali della ferrovia o guardando passare i treni veloci a un passo dal ciglio di un’autostrada non te ne rendi conto. Ma se stai ritto in piedi, senza poter attraversare il tuo passaggio pedonale sulla strada perché il treno ti impedisce di attraversare, per un tempo che lì per lì pare infinito, e se girando la testa dai un’occhiata ai vagoni e non ne vedi la fine, ecco, allora stai pur sicuro che ti viene l’irrefrenabile voglia di saltare su uno di quei vagoni merci che in parte sono semplici basi di ferro e legno con le ruote metalliche che sferragliano sui binari incassati nell’asfalto.

Altro che concerto allo Yoshi’s… Quel treno mi ha sempre dato l’idea del jazz, della sua potenza e della sua debolezza insieme. Perché in definitiva nessuno difendeva quei vagoni, nessuno controllava che quella fila interminabile di merci avesse una sua cura, fosse in sicurezza. Quel lungo squalo dalle ruote di metallo aveva soltanto un guidatore: c’era soltanto il macchinista della locomotiva che tirava la fila universale di vagoni indifesi. Fu lì, davanti a quel treno, che ripensai a quello che mi raccontò una sera prima di un suo concerto Paolo Conte, quando mi disse che c’erano pianisti jazz con dita talmente forti – e mi fece anche un nome di qualcuno che ora non ricordo – che spostavano un armadio soltanto con l’indice o il medio. Adesso che ci penso non so se la cosa sia possibile, cioè se sia vero quello che l’avvocato mi raccontava, ma io scrivo e per farlo bene occorre che creda a tutto ciò che mi raccontano.

Questa immagine di un pianista che sposta l’armadio con un dito l’ho visualizzato soltanto dopo un concerto emozionante, quando andai a parlare con Michel Petrucciani nel camerino. Si badi bene, Petrucciani non ha mai suonato allo Yoshi’s. E adesso non ricordo dove fosse quel concerto, ma la cosa andò così. Entrai nel camerino e c’era questo esserino seduto sopra un divanetto che stava bevendo acqua a volontà e si tergeva la fronte con un asciugamano da bidet. Prima di cominciare a parlare – e l’avremmo fatto per oltre due ore, mangiando e bevendo sul divanetto, per un’intervista che non fu mai pubblicata – incrociai con gli occhi le sue mani che erano enormi rispetto al suo corpo piccolissimo e fragile. Due mani da fabbro, da pugile. Due mani fatte di ossa e vene in vista, di dita grandi che senza alcun dubbio avrebbero potuto spostare un armadio.

Ecco qual era la mia spasmodica inquietudine di squalo, che non mi faceva star fermo ad ascoltare Dee Dee Bridgewater, seduto in una poltroncina dello Yoshi’s. Nulla contro di lei. È bravissima. Era soltanto la voglia di un treno e di dita che spostano armadi. Era l’impossibile desiderio di mettere insieme lì, sul fronte porto di Oakland, California, quel treno merci che procede lento sulla strada, le mani di Michel Petrucciani e i racconti di Jack London. Perché la natura dell’uomo – come dice lui – è vivere, non esistere.