Il libro di Katherine Dunn
C’era una volta la “nobile arte”: l’età dell’oro della boxe da Jack London a Mike Tyson
Tutto comincia con The game di Jack London all’inizio del ventesimo secolo: «Barcollò all’indietro e si salvò dal cadere con l’afferrarsi alla cieca alle corde. Ci si attaccò accasciandosi e piegandosi e abbandonandosi tutto, la testa reclinata sul petto, fino a che l’arbitro contò il fatale decimo secondo e puntò il dito verso di lui per dire che aveva vinto». Continua con Cinquanta bigliettoni di Ernest Hemingway: «“Come va la vita, Jack – gli domandai”. “Hai visto questo Walcott?” “Vengo ora dalla palestra.” “Bene. bisognerà che mi assista la fortuna con quel ragazzo.” “- Ma se non ti toccherà neanche, Jack – disse Soldier.” “Volesse il cielo!”». E si conclude nel 1975 con The Fight di Norman Mailer: «Mohamed Alì è il Principe del Cielo: così dice il silenzio che circonda il suo corpo quando egli è luminoso».
Il pugilato è stato una delle più grandi fascinazioni del Novecento: letteratura e cinema, in particolare, ne recano fulgida testimonianza. Ma perché parlarne al passato? Che la nobile arte fosse uno sport agonizzante, destinato all’oblio definitivo, fatta eccezione per qualche ultimo match organizzato a fini di lucro, lo sapevamo. Fra gli autorevoli studiosi ad averlo sentenziato nelle trascorse stagioni con ogni possibile cura teorica, è stato Alexis Philonenko, eccentrico filosofo contemporaneo, in Storia della boxe (Il Melangolo, 1991). Oggi i ragazzi estremi delle periferie urbane sparse nel pianeta, quelli che un tempo per emanciparsi e distinguersi sceglievano i guantoni, non lo praticano quasi più, preferendo spaccarsi le ossa nelle cosiddette arti marziali miste, magari sotto la luce dei riflettori, i quali invece sono sempre accesi, anche grazie ai nuovi network televisivi che raccolgono preziosi abbonamenti in tutto il pianeta. Altra epoca era quella in cui, come dichiarò con fare altisonante Joyce Carol Oats in Sulla boxe (e/o, 1987), si configurava «un mondo dove si è responsabili, dal punto di vista umano, non solo delle proprie azioni ma anche di quelle dirette contro di noi». In tale prospettiva salire sul ring per combattere significa prendersi in carico non solo l’avversario che abbiamo di fronte, ma pure la legge che governa i nostri movimenti: attacco, difesa, colpi inferti e ricevuti. Non è fatta così anche la vita?
Da tale dimensione metaforica prende spunto Katherine Dunn nel Circo del ring. Dispacci dal mondo della boxe (traduzione di Leonardo Taiuti, 66thand 2nd, pp. 272, 17 euro), una vera chicca per ogni appassionato. Tuttavia i grandi campioni di cui Dunn racconta, oggi dobbiamo accontentarci di vederli su You Tube. Vecchi cristalli di gesti atletici decaduti, «dagli anni dello splendore di Sugar Ray Leonard al lungo declino di Iron Mike Tyson fino all’ascesa delle donne sul ring», sebbene perfino il già distante Million Dollar Baby (2004), il film di Clint Eastwood che celebrava i fasti delle ragazze disposte a farsi rompere il naso, rischia di illanguidire nei centoni dell’on demand. Figuriamoci alcuni leggendari capostipiti del genere, quali Fat City (1972) di John Huston, con un Jeff Bridges dall’andatura ciondolante e l’aria stanca come non si è mai più visto sugli schermi cinematografici, Toro scatenato (1980) di Martin Scorsese, nella gloriosa apoteosi di Robert De Niro, che danza nel bianco e nero del quadrato sulle note di Pietro Mascagni, senza dimenticare, nel nostro piccolo, l’ultimo capitolo dei Mostri (1963) di Dino Risi, intitolato La nobile arte, con una memorabile coppia, Tognazzi-Gasmann, l’uno manager, l’altro ormai in carrozzella, impegnati a discettare a modo loro sulle sorti dell’universo. “E sò contento!”, esclama il pugile suonato mimando uno scambio volante. Finiranno entrambi a giocare come ragazzini con l’aquilone sul litorale romano nella scena straziante che annuncia i titoli di coda.
Scrive Katherine Dunn in uno dei pezzi raccolti in questo libro che, sbagliando, viene collocato dai commessi sugli scaffali dei manuali sportivi: «Le palestre si annidano dietro le vetrine dei negozi, nei garage, nei seminterrati, su per due rampe di scale sopra le bettole oppure, casi sempre più rari, stipate in cadenti centri comunitari… Certe sono tirate a lucido e puzzano di disinfettente. Altre puzzano e basta». Pagine rare dedicate ai cutmen, che all’angolo devono suturare le ferite dei contendenti, specie quelle sanguinose sulle sopracciglia. Alle fasciature: «Il dilemma alla base di ogni scazzottata è che la mano umana non è fatta per essere usata come arma». A Wilfred Benitez: «La sua miracolosa stregoneria riusciva a proteggerlo meglio di un’armatura d’acciaio». A Roberto Duran: «Ogni volta che suonava la campana aggrediva l’avversario con le peggiori intenzioni». A Marvelous Marvin Hagler, scomparso da poco, «la cui arte pugilistica potrebbe riassumersi col titolo Lo zen e l’integrità dell’onesto lavoratore». Soprattutto a Sugar Ray Leonard, che sta in cima alla lista della gloria: «È tornato a combattere dopo cinque anni di attività, senza neanche un incontro preparatorio, in una categoria di peso superiore contro il più dotato ed esperto campione del mondo, e ha vinto».
Restano negli occhi del lettore alcune immagini folgoranti, nelle quali l’acribia della cronista sportiva si sposa come se niente fosse al talento della narratrice: quella di Hearns colpito da Hagler: «Si rialza prima del dieci, barcollando come un puledro appena nato, malfermo e confuso sulle lunghe gambe». O quella di Mike Tyson che morde alla maniera di un cane rabbioso l’orecchio di Holyfield entrando così per sempre nella categoria dei cattivi. L’autrice, che per lui stravede, spende buona parte della sua reputazione nel maldestro e commovente tentativo di difendere l’aggressore. Dev’essere stata una donna speciale, Katherine Dunn, nata nel 1945 e morta cinque anni fa: «I boxeur, maschi e femmine, si battono sotto il calore delle luci bianche mentre io me ne sto seduta comoda al buio a fare commenti. Grazie a loro da qui riesco a vedere intere galassie».
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