Los Angeles, 1981. Sono passati 21 anni dall’estate in cui per la prima volta il mondo ha conosciuto il suo volto pulito, i lineamenti perfetti e lo sguardo guizzante tutt’altro che da pugile. Ora quel volto lo conoscono tutti.
Lo riconosce subito anche il ragazzo di 21 anni in piedi, sul cornicione, fuori dalla finestra di un palazzo di nove piani. È più di un’ora che minaccia di buttarsi giù. Ha deciso di suicidarsi e nessuno riuscirà a fargli cambiare idea. Nessuno.
Ora, però, a due finestre di distanza c’è lui, il più grande di tutti, Mohamed Alì, al secolo Cassius Clay. Passava di lì per caso, ha osservato la scena, si è offerto di parlarci lui con quel ragazzo. I soccorritori, all’ultima spiaggia, hanno acconsentito.
Il colloquio dura venti minuti, alla fine dei quali il ragazzo fa marcia indietro e rientra dalla finestra. Continuerà a vivere. A chi si congratula con lui, Alì si limita a dire: «Per me salvare una vita è più importante di qualsiasi cintura».
Cosa si siano detti in quei venti minuti lo sanno solo loro, il ragazzo che voleva farla finita e il pugile campione del mondo.
Ma a me piace pensare che Alì in quei venti minuti abbia raccontato al ragazzo una storia: la storia di una medaglia, la sua medaglia.
«Ragazzo – lo vedo attaccare con la parlantina sciolta e strafottente di chi la sa più lunga di tutti – se Dio avesse voluto farci volare, ci avrebbe fatto le ali».
Non faceva altro che ripetere questa frase, su quel dannato aereo che sorvolava l’oceano e lo stava portando dall’America a Roma. Dopo di quello, ne avrebbe presi tanti di aerei. Ma quello era il primo.
Mohamed Alì, anzi, come si chiamava allora, Cassius Clay, aveva appena 19 anni. Veniva da Louisville, Kentucky, e fino a quel momento, a mala pena, era uscito dai confini della sua contea.
Su quell’aereo, per esorcizzare la paura, non faceva altro che parlare, parlare, e parlare, con quella lingua tagliente che, questa sì, il Buon Signore gli aveva dato, e ripetere come un mantra quella frase: «Se Dio avesse voluto farci volare, ci avrebbe fatto le ali».
Per buona pace degli altri passeggeri, l’aereo con le sue ali, l’aveva depositato sano e salvo nel Vecchio Continente, un mondo così diverso da quello da cui veniva lui. Ma un ring è un ring, a Louisville Kentucky, come nell’antica capitale di un vecchio impero tirata al lucido per un’occasione irripetibile.
A Roma il giovane Cassius ci è arrivato per partecipare alla XVII Olimpiade dell’era moderna. Deve combattere nella categoria dei medio-massimi, anche se, col senno di poi, il termine “medio”, proprio non si addice al più grande (e infatti verrà cancellato: Alì combatterà di lì in avanti per essere il re dei massimi, punto e basta).
Nel nuovissimo Palazzo dello Sport, inaugurato giusto qualche settimana prima, Clay raggiunge la finale vincendo tutti gli incontri senza perdere un round. Come si usa dire, in scioltezza. Scioltezza, quello sì, un termine che gli si addice. Il ragazzo è sciolto di gambe, almeno quanto lo è di lingua. Non sta fermo un secondo su quelle gambe, e questo fa impazzire i suoi avversari. «Pungo come un’ape, danzo come una farfalla…» così descriverà la sua boxe, in età più matura (da notare sempre il riferimento a esseri viventi con le ali…). A rendersene conto di persona, il 5 settembre, il giorno della finale, è il polacco Pietrzykowski.
Pietrzykowski è un pugile esperto, alla sua seconda olimpiade, ha battuto in semifinale la nostra speranza Giulio Saraudi con un netto 4 a 1.
Quel pomeriggio, con la sua canottierina bianca, più che un puglie, il polacco sembra uno scaricatore del porto di Danzica. Insegue per tutto il ring il suo avversario più giovane di otto anni. Ma non lo prende mai. Al contrario, Clay appena può punge come un’ape. Il verdetto dei giudici, alla fine del match, è inequivocabile: 5 a 0 per il giovane Clay. Medaglia d’oro.
Eccola quella medaglia d’oro, di cui mi piace immaginare Mohamed Alì stia parlando al ragazzo la cui vita è appesa a un cornicione di un edificio di Los Angeles, 21 anni dopo.
Quella medaglia d’oro ha fatto un volo nel profondo ed è andata persa per sempre, un volo uguale a quello che vorrebbe fare quel ragazzo, giù nell’abisso per perdersi per sempre. O perlomeno così racconta la leggenda.
Questa è la scena che Mohamed Alì ricama nella sua autobiografia.
Il giovane Cassius è da poco tornato nella sua cittadina del Kentucky, fresco dell’impresa olimpica di Roma. Ha ancora la medaglia al collo. È con un suo amico, è affamato, e si ritrova di fronte a un ristorante che ha un cartello piuttosto esplicito appeso alla porta di entrata: Qui non si servono neri. Non è cosa insolita per l’America profonda di quegli anni. La segregazione razziale è la norma, non l’eccezione.
Ma un’eccezione la faranno sicuramente per lui, pensa Clay, lui che ha rappresentato gli Stati Uniti d’America sul più grande palcoscenico sportivo del mondo. Per quel Paese è salito sul gradino più alto del podio mentre, di quel paese, suonavano l’inno.
E invece no. Il proprietario del ristorante lo caccia via con modi spicci e aggressivi. Qui non si servono negri, più chiaro di così… La frustrazione s’impadronisce del giovane Clay. Attraversando un ponte, in un accesso di rabbia, getta la sua medaglia d’oro nel fiume Ohio. Vinta per un Paese che non lo accetta. Persa per sempre.
Il racconto è verità o leggenda? Poco importa.
Tre cose, negli anni, rimarranno sicure in tutta questa storia:
Che il giovane Cassius, a pochi mesi dal suo ritorno dall’Italia, non ha più la sua medaglia d’oro (Persa? Gettata via? Regalata?).
Che il giovane Cassius ha capito che il pugilato è solo lo spogliatoio, il vero ring sono i problemi del mondo.
Che il giovane Cassius non permetterà mai più a nessuno di dirgli cosa può o non può fare. Nemmeno agli Stati Uniti d’America.
Il resto, come si dice, è storia, non più leggenda.
Il 25 febbraio del 1964 diviene campione del mondo dei pesi massimi, un giovanissimo campione del mondo di soli 22 anni. Quella sera batte un pugile molto più grosso, molto più potente e molto più esperto di lui: Sonny Liston che alla vigilia era dato da tutti, ma proprio da tutti, per favorito. Due giorno dopo, dichiara di essere diventato membro della Nation of Islam e cambia quello che lui definiva un nome da schiavo, Cassius Clay, in un nome nuovo e luminoso, Mohamed Alì.
Nel 1967 si rifiuta di partire per il Vietnam, per il semplice motivo che a lui personalmente i vietkong non hanno fatto niente, mentre, ogni giorno, in territorio statunitense, la sua gente viene oltraggiata, derisa e maltrattata, perfino uccisa, solo per il colore della pelle.
E pazienza, se a causa di questa presa di posizione, andrà in prigione. Prima o poi ne uscirà. E pazienza se gli revocheranno il titolo di Campione del mondo. Se lo riprenderà (lo farà per ben due volte). E pazienza se per i successivi tre anni gli sospenderanno la licenza per combattere su un ring. Tornerà più forte di prima.
A 32 anni si riprende quel titolo che gli avevano tolto per motivi politici in un match diventato immortale grazie a lui, al contesto in cui venne combattuto, alla penna di Norman Mailer e a un documentario vincitore del premio Oscar. The Rumble in the jungle, la rissa nella giungla, così fu soprannominato l’incontro, si tenne a Kinshasa nella capitale dello Zaire, nello stadio in cui, si dice, il dittatore Mobutu faceva fucilare i suoi avversari politici. Nella fattispecie, invece, Alì fa fuori (pugilisticamente parlando) una montagna di nome George Foreman.
Insomma, Alì è questo, e molto altro. Ma la nostra storia, non la leggenda, ci porta fino al 1996, al giorno in cui Mohamed Alì prende parte a un’altra olimpiade, quella di Atlanta.
Il giovane, aitante, logorroico, sbruffone che 36 anni prima ha sorpreso il mondo in un’estate romana, ha lasciato il posto a un signore gonfio, tremolante, che fatica a fare un passo, ad accennare un saluto, a dire una parola.
Mohamed Alì è affetto dal morbo di Parkinson. A lui, però, gli organizzatori hanno affidato l’onore di portare per ultimo la fiaccola e accendere il braciere olimpico. È un colpo di teatro, ma sembra un brutto scherzo. Nella diretta in mondovisione tutti sono lì a chiedersi se il più grande di tutti ce la farà a compiere un gesto che sarebbe facile persino per un bambino. Lui ce la fa e compie la sua ultima impresa, ma sa che non è questo l’importante.
L’importante è l’ultimo messaggio che ha appena lanciato al mondo intero: se vuoi essere il più forte di tutti, abbi il coraggio di mostrarsi in tutta la tua debolezza.