È dal 1928 che alle Olimpiadi nessuno riesce a batterli. I 200 metri piani sono la gara degli americani. Pochi dubbi al riguardo.

Manco a dirlo, anche in quell’estate del 1960, sono loro i favoriti. Ray Norton e Stan Johnson si presentano a Roma forti del miglior tempo assoluto al mondo, lo stesso per entrambi, 20 secondi e cinque decimi (i cronometri dell’epoca ancora non conteggiano i centesimi).

Il giorno della verità è fissato per il 3 settembre. Nel primo pomeriggio ci sono le semifinali. La finale è programmata appena due ore dopo. Norton e Johnson sono insieme in pista nella prima semifinale: uno in corsia 2 e l’altro in corsia 6. Affrontano il rito del pre-gara nel modo solito, sciolti e sicuri di sé. “Paiono le statue dei dioscuri in cima alla scalinata del Campidoglio…”, scappa detto a qualcuno.

In mezzo a loro in corsia 3, c’è un ragazzo di 21 anni con indosso la canottierina azzurra dell’Italia, pantaloncini, calzini e scarpe sono di un bianco immacolato. In confronto ai due americani, è uno scricciolo. Pallido e segaligno, Livio Berruti, questo il nome dell’atleta, martella sui chiodi dei suoi blocchi per fissarli alla giusta distanza dalla linea di partenza, senza guardarsi attorno. Sembra un gracile maniscalco, più che un velocista, fuori posto in mezzo ai due colossi neri.
Nessuno può dire cosa stia provando il ragazzo in quegli istanti così carichi di tensione. Perché Berruti indossa un paio di occhiali neri che gli coprono lo sguardo. E, verrebbe da dire, aggiungono alla sua esile persona un aria di mistero strafottente che ricorda vagamente quella di un altro volto coperto da occhiali scuri: il volto di Marcello Rubini, il protagonista de La Dolce Vita. Il film di Federico Fellini, uscito giusto qualche mese prima, nel febbraio del 1960, ha svelato al mondo un’immagine inedita di Roma, lasciva e affascinante, decadente e glamour, un’immagine di un fascino conturbante che colora anche l’Olimpiade romana. E poi, la pellicola di Fellini ha consacrato definitivamente la figura del latin lover nostrano, magistralmente interpretato da Marcello Mastroianni dietro a quel paio di occhiali scuri. Certo non è Mastroianni ma, nel suo piccolo, anche Berruti si è fatto la fama di latin lover. I compagni di squadra sghignazzano ancora ricordando il meeting di Mosca dell’anno prima. Livio si era presentato al ricevimento post-gara al braccio della biondissima ragazza russa che lo aveva premiato in pista solo qualche ora prima, per poi finire la serata con lei in albergo. Una scena degna della Dolce Vita, non c’è che dire.
Durante i giochi olimpici, poi, i paparazzi lo ritrarranno a braccetto nientemeno che con Wilma Rudolph, la bellissima velocista americana vincitrice di ben tre medaglie d’oro (una relazione platonica che, ci terrà sempre a sottolineare Berruti, non è mai divenuta aristotelica).
Ma se gli occhiali neri sembrano fatti apposta per i marciapiedi di Via Veneto, lo stesso non si può dire per la terra rossa di una pista di atletica. Marco Pantani diceva che quando la strada cominciava a salire, si toglieva la bandana, buttava la borraccia, si sarebbe levato perfino il piercing al naso, per arrivare fino al traguardo più agile e leggero possibile. Berruti no, non si preoccupa dei grammi in eccesso degli occhiali. Perché, in realtà, non sono un vezzo, sono una necessità. Livio è miope, gli occhiali servono per vedere la corsia e restare in carreggiata. Specie nella curva, la grande insidia dei 200 metri.
Durante la semifinale, quel 3 settembre, grazie ai suoi occhiali Berruti ci vede bene, molto bene. I due americani, Norton e Johnson sono sorpresi. Alla fine della curva, il giovane latin lover italiano è davanti a loro di due metri buoni.
“La curva mi dava un senso di erotismo, cioè vincere questa forza centrifuga, dominare questa forza che tendeva a trascinarti fuori traiettoria a me dava un piacere erotico che mi spingeva a goderla con gioia, con la curiosità di scoprire fin dove potevo arrivare. La curva è sempre stato strumento di piacere e non di sofferenza come succedeva ad altri atleti.” Sono parole di Berruti, queste. Più che la dinamica di una corsa, sembra di sentire la descrizione delle forme di Anita Ekberg nella celeberrima scena della Fontana di Trevi de La Dolce Vita.
Sia come sia, nella semifinale Berruti arriva al traguardo con un metro buono di vantaggio sugli avversari americani. Il tempo? Record del mondo eguagliato: 20 secondi e 5 decimi. Un vero exploit. L’Italia può sognare: mai nessun velocista tricolore ha vinto una gara ai Giochi Olimpici.
Norton e Johnson, i due favoriti della vigilia, sono spiazzati. E questo chi è? Da dove arriva? Cosa cela dietro quegli occhiali scuri? Il mistero si infittisce nelle ore successive che precedono la finale. I due americani sono allo Stadio dei Marmi insieme a tutti gli altri sprinter qualificati, per effettuare il riscaldamento pre-gara. Berruti però non c’è. L’italiano si sente talmente sicuro di sé da non aver neppure bisogno di tenersi allenato con il riscaldamento?
La verità è un’altra, ma gli americani non la sanno. Visto il tempo record della semifinale, Berruti ha paura di essersi stancato più del dovuto. Se n’è rimasto, allora, negli spogliatoi sdraiato sul lettino del massaggiatore a riposarsi e a sorseggiare un succo d’arancia.
Non doveva essere la mossa di una battaglia psicologica, ma lo diventa.
Quando arriva l’ora della finale, gli americani sono tesissimi. Ai blocchi di partenza, Berruti si avvicina. Cavallerescamente vuole stringere la mano agli avversari prima dell’agone. Ma loro lo ignorano serrando i ranghi tra di loro come a darsi forza. Vuol dire che lo temono.
Un colpo di pistola esplode nello Stadio Olimpico. Partiti. Il pubblico romano incita l’atleta di casa con un boato. Ma Berruti non sente il baccano degli spettatori. Il suo sguardo, dietro gli occhiali scuri, è fisso, dritto davanti a sé, mentre il suo udito è concentrato sullo scalpiccio dei passi dei suoi rivali che gli corrono accanto. È come se, invece che pensare a correre e basta, il suo cervello fosse impegnato ad analizzare la realtà che lo circonda, a scomporla in elementi sempre più piccoli. D’altronde, è un esercizio a cui la mente di Berruti è molto ben allenata.
Quando non è impegnato con l’atletica, Livio infatti studia chimica all’università di Torino. È questa la sua vera, grande passione. Da sempre. Da quando era uno studente del prestigioso liceo Cavour di Torino e otteneva sempre voti alti. È stato lì, nella palestra del ginnasio, che un professore di ginnastica lungimirante e dal nome altisonante, Melchiorre Bracco, ha notato l’innato talento di Livio, la velocità che si sprigionava da quegli arti magri, certo, ma dotati di un’elasticità fuori dal comune, la potenza che veniva fuori da quelle caviglie sottili ma fortissime, in grado di controbilanciare la spinta centrifuga della curva dei 200 metri, in una vertigine di equilibrio perfetto e velocità massima.
Una sorta di magia.
Quasi a sottolineare quella magia, esattamente mentre Berruti lascia indietro i suoi avversari nella curva della finale olimpica, come estratte dal cilindro di un prestigiatore, ecco uno stormo di colombe bianche alzarsi in volo nel cielo sopra lo stadio. Incrociano il loro volo con quello di Livio. È questa una delle immagini che rimarranno indelebili di Roma 60.
Berruti pennella la curva come fosse un cerchio di Giotto. Solo che il pennello sono quelle gambe secche e potentissime alla fine delle quali, al posto delle setole, ci sono due caviglie dalla forza irreale.
Come accaduto nella semifinale, prima dei cento metri finali, Berruti è davanti a tutti. Ora però c’è il rettilineo. È qui che gli americani dovrebbero risalire. E invece passano dieci metri, e non risalgono. Ne passano venti, e non risalgono. Ne passano trenta, e sono ancora più indietro. Il cervello di Berruti scompone ancora la realtà in molecole. Ma l’udito non sente accanto a lui alcuno scalpiccio degli avversari sulla terra rossa. E non a causa di un subitaneo offuscamento dei sensi. Ma perché gli avversari sono lontani. L’unico che riesce a stargli in scia è un americano, ma non è né Norton, né Johnson. Si chiama Conley. Ed è in ultima corsia. Per cercare di sopravanzare Berruti sul filo di lana, Conley tenta addirittura un improbabile tuffo in avanti che lo fa a caracollare a terra in modo goffo subito dopo il traguardo.
Anche Berruti dopo il traguardo perde l’equilibrio e si lascia cadere a terra. Ma il suo non è un tuffo di resa. È primo, con il record del mondo eguagliato: di nuovo 20” e 5 decimi.
“Mi sono lasciato andare come forma di rilassamento totale, come quando fai un bell’esame all’università…”, dirà di quel momento Berruti, con la solita razionalità del chimico e una bella medaglia d’oro attorno al collo. La prima della storia per l’atletica italiana della velocità, a cui seguirà, sempre sui 200 metri, quella di Pietro Mennea a Mosca nel 1980. Piccolo particolare: in Unione Sovietica americani in gara non ce n’erano a causa del boicottaggio. E chi vuole intendere, intenda.
E gli americani di Roma? Sconfitti, annichiliti. Conley salva l’onore ed è secondo, Norton e Johnson non arrivano neppure a medaglia. È Livio Berruti il re di Roma.
Lui lo capisce il giorno successivo alla gara mentre passeggia tranquillamente per Via Condotti. Una fioraia gli si fa incontro con un mazzo di fiori. Livio si gira dietro di sé, per vedere chi sia il fortunato destinatario di un così bel dono. Salvo rendersi conto, un’istante dopo, che il destinatario è lui. La giovane fioraia lo ringrazia così dell’emozione che ha regalato a lei e a tutti gli italiani.

(Prima puntata -Continua)