Stavolta partiamo dalla fine.
Perché il 10 settembre è l’ultimo giorno di gare E il sipario si sta abbassando sull’Olimpiade romana del 1960.
Ed è la fine perché, come da tradizione, la chiusura è affidata alla gara che è il simbolo dei Giochi Olimpici. La maratona, una corsa massacrante di 42 chilometri e 195 metri, la stessa distanza che è stata percorsa nel 490 a.C. dall’ateniese Fidippide, uno che di mestiere faceva l’emerodromòs, alla lettera “colui che corre per un giorno intero”, in pratica un servizio postale ante litteram. A piedi.
Come è noto, Fidippide corse fino ad Atene per annunciare la vittoria dei Greci sui Persiani dalla piana di Maratona, distante dalla città per l’appunto 42 chilometri e 195 metri. La leggenda vuole anche che Fidippide, subito dopo essere arrivato e aver dato ai suoi concittadini la grande notizia (“nenikamen”, abbiamo vinto), sia letteralmente stramazzato al suolo. Stanco morto. Anzi, proprio morto.
A distanza di 2450 anni, un uomo ha appena percorso la stessa distanza di Fidippide, i 42 chilometri e spicci, con un tempo che nessuno, alle Olimpiadi, aveva mai fatto prima. Eppure, quest’uomo a fine corsa appare fresco come una rosa. Dopo aver tagliato il traguardo per primo, continua a correre sul posto, a fare piccoli esercizi di stretching, e si guarda intorno come è dire: e beh? Tutto qui? Io sono pronto a correrne un’altra di maratona, in questo istante. Quando si ricomincia? Gli avversari devono ancora arrivare e quelli che sono lì, intorno a lui, lo guardano, meravigliati, sgomenti. Quello strano, bizzarro ometto non ha nemmeno un paio di scarpe da ginnastica ai piedi. Ha corso scalzo, proprio come deve aver fatto Fidippide nella prima maratona della storia. Ma qui non siamo mica nell’Antica Grecia!
È vero che, per il gran finale, Roma ha indossato il suo vestito più fastoso. Partenza alle 17.30 del pomeriggio ai piedi del Colosseo, arrivo di notte sotto l’arco di Costantino. Nel mezzo, la luce rossa del tramonto e una serie di scenari mozzafiato, il Circo Massimo, le Terme di Caracalla, l’Appia Antica, le Mura Aureliane, i metafisici spazi dell’Eur. Più che una maratona è un viaggio nel tempo. Non a caso la chiamano la Città Eterna.
D’accordo, ma questo tizio che corre a piedi nudi non faceva parte del programma. Da dove sbuca fuori? È la domanda che, all’incirca dalle 18 di quel pomeriggio, cronisti, avversari, spettatori non fanno che porsi. La litania è iniziata intorno al decimo chilometro di gara, quando qualcuno si è accorto che lì davanti, nel gruppetto di corridori di testa, ce n’è anche uno con la canottina verde e i pantaloncini rossi, il numero 11 appuntato sul petto e sulla schiena, che non ha le scarpe! Quei piedi scalzi che martellano sui sampietrini romani, come una calamita, catalizzano l’attenzione. I cronisti scorrono in fretta l’elenco dei partenti. Un corridore scalzo fa colore in un pezzo. Nel giornale di domani qualche riga di alleggerimento gliela dedicheranno senz’altro. Eccolo qui: si chiama Abebe Bikila, viene dall’Etiopia e si è accreditato con un tempo molto vicino a quello del primatista del mondo, il russo Sergej Popov, che ora gli corre accanto. Un risolino scappa a quelli che si credono più scaltri: “Ma dai, chissà come li prendono i tempi, in Etiopia! Non hanno le scarpe, figuriamoci i cronometri!”. Al quindicesimo chilometro quel risolino si già è trasformato in una smorfia di sconcerto. L’etiope scalzo ha preso la testa e sta tenendo un’andatura sostenuta, troppo sostenuta per gli altri, perfino per Popov. L’unico che riesce a tenere il passo di Bikila è un altro figlio dell’Africa, il marocchino Rhadi Abdesselam. Lui sì è conosciuto fra gli addetti ai lavori. Si è classificato 14esimo nei 10.000 metri, e ha vinto una delle più importanti corse campestri del mondo. L’unico mistero che lo riguarda è che non si sa esattamente che età abbia. Nel villaggio alle pendici dell’Atlante da cui proviene, nessuno ha mai registrato una nascita. Non è lui, comunque, l’oggetto delle attenzioni: è l’altro, il corritore scalzo. Vuoi vedere che nel pezzo di domani, cominciano a sussurrare a mezza bocca i cronisti, tocca dedicargli qualcosa di più di un trafiletto folkloristico?
Mentre i piedi di Bikila macinano chilometri sulla Via del Mare che porta fino a Ostia, le redazioni giornalistiche si scatenano nelle ricerche.
E qualcosa scoprono. Abebe Bikila è un ufficiale della guardia di Hailè Selassiè, l’imperatore del suo paese. Si allena sugli altopiani nei dintorni di Adis Abeba, a 2400 metri di altitudine, dove l’aria è sottile, e correre è una tortura. Per gli altri, forse, non per lui.
Perché Abebe ha cominciato a correre molto presto nella vita. Aveva solo 4 anni quando è dovuto scappare da Adis Abeba. La madre ha preso lui e i suoi quattro fratelli ed è fuggita dalla città mentre le truppe italiane la invadevano. Nel 1936, l’Etiopia diventa parte dell’impero coloniale voluto da Mussolini. Con molta retorica, e tanta crudeltà. Abebe ha, dunque, un conto in sospeso con il nostro paese. La notte, intanto, è calata su Roma. Lungo il percorso, sugli storici monumenti si accendono luci e fiaccole che rendono lo spettacolo ancora più magico. Quella che non è cambiata è la dinamica della gara. Bikila e Rhadi sono saldamente in testa alla corsa, e sono arrivati ormai sull’Appia Antica. Popov e gli altri sono indietro, centinaia di metri indietro, e non possono più rientrare.
Con lena instancabile i piedi nudi di Bikila calpestano i lastroni su cui, si dice, sia passato anche San Pietro. Stava fuggendo lontano da Roma per non farsi crocifiggere, l’apostolo di Cristo, quando sulla strada incontrò il Maestro (o meglio il suo fantasma redivivo) che, come Bikila, marciava invece spedito in senso inverso, alla volta della città. “Quo Vadis, Domine?”, “Dove vai, Signore?”, chiede Pietro a Cristo. Il Signore gli risponde che va a farsi crocifiggere per la seconda volta, visto che lui, Pietro, se la sta svignando. Pietro capisce l’antifona, gira i tacchi e riprende la via di Roma per farsi crocifiggere dai Romani. Anche Bikila e Rhadi, ora, tornano verso la Città Eterna. Non per farsi crocifiggere dai romani, ma per farsi mettere intorno al collo una medaglia che significherebbe il riscatto di un intero continente.
In quell’estate del ‘60 violenti rivoluzioni politiche hanno ridisegnato l’Africa: ben 15 nuove nazioni sono nate. Ma, nessuna di quelle nuove e di quelle vecchie, è finora riuscita a vincere una medaglia. Mai nella storia delle Olimpiadi un africano è salito sul gradino più alto del podio. Mai. Bikila prova uno strappo. E vede che il suo avversario marocchino non risponde. Allora aumenta i giri delle gambe. E prende un andatura impossibile. All’altezza di Porta San Sebastiano, manca ormai circa un chilometro all’arrivo. E Bikila, sotto la porta intitolata a un altro martire, ci passa da solo. Rahdi ha mollato. Con i piedi scalzi, con le torce accese ai bordi della strada che lo illuminano in chiaroscuro, con la fatica della corsa che ne tira i lineamenti, la figura scarna di Bikila finisce davvero per emanare un che di mistico, quasi santo. Fino al momento in cui i suoi piedi nudi non passano, per primi, sotto l’arco di Costantino. Quello che segue è un trionfo degno di un imperatore romano. Come degno di un imperatore è anche l’orgoglio che l’ufficiale della guardia etiope sfodera subito dopo il traguardo. “All’Italia è servito un esercito di un milione di uomini per prendere l’Etiopia. All’Etiopia è bastato un solo soldato per conquistare Roma”. A chi gli chiede perché ha corso scalzo, aspettandosi chissà quale storia strappalacrime, Bikila risponde molto prosaicamente: le scarpe Adidas, sponsor tecnico della manifestazione, gli facevano venire le vesciche. Semplice, no?
Al ritorno in patria, Bikila viene accolto da eroe. Come premio per la sua impresa Hailé Sellasié, l’imperatore in persona, gli regala un’automobile, un Maggiolino Volkswagen. I piedi di Abebe che fino a quel punto avevano macinato chilometri su chilometri di corsa, possono finalmente rilassarsi, premendo un freno, un acceleratore e una frizione. È il suo premio, ma diventerà la sua condanna. Quei piedi così decisi, così sicuri quando toccano la terra, evidentemente non lo sono altrettanto alla guida di una macchina. Nel 1969, sulle strade intorno ad Addis Abeba, le strade che conosce a menadito, sulle strade dove si allena giorno e notte, Bikila ha un terribile incidente d’auto. Finisce fuori strada, giù in un fossato. Ne esce vivo, ma su una sedia a rotelle, paralizzato dalla cintola in giù. È una beffa. I piedi dell’unico uomo in grado di vincere due maratone olimpiche, non si muovono più.
Eh sì, perché quei piedi, nel frattempo, ne hanno vinta un’altra di maratona, quattro anni dopo quella di Roma. A Tokyo, nel 1964, Bikila non è più un signor nessuno scalzo. È il favorito della gara. E sfoggia un bel paio di scarpe da ginnastica bianche. Quello che non è cambiato è il suo modo di correre, agile, infaticabile, imprendibile per chiunque altro. Bikila abbassa di tre secondi il record del mondo che deteneva già ed è di nuovo medaglia d’oro. E meno male che solo un mese prima si era operato di appendicite e aveva dovuto interrompere la preparazione! L’indomito, orgoglioso soldato africano muore nel 1973 a causa di un’emorragia a seguito dell’incidente. Non prima, però, di aver partecipato a un’altra olimpiade. Nel 1972, a Monaco, Bikila si presenta al via delle paralimpiadi. Non può più correre una maratona, certo, ma su una sedia a rotelle può sempre tirare con l’arco…