In questo periodo si è abusato della parola “untori”: ricavata, evidentemente, dal ricordo scolastico dei Promessi sposi. Ma se rileggiamo i capitoli 31 e 32 del libro, vero saggio illuministico inserito nel romanzo, scopriamo che gli untori (nella fantasia popolare) diffondevano la peste consapevolmente e a pagamento; su mandato del cardinale Richelieu o di altre potenze straniere. I due capitoli sono una requisitoria contro l’inerzia dei politici, contro i “sogni” degli intellettuali (basandosi su Aristotele negavano la peste, o l’ammettevano attribuendola a influssi astrali) e contro la credulità di «quello che i poeti chiamano volgo profano, e i capocomici rispettabile pubblico», insomma delle masse. L’invenzione seicentesca degli untori assomiglia a certe ricostruzioni complottistiche che circolano oggi in Rete: che il virus sia stato costruito in laboratorio dagli Usa per mettere in ginocchio la Cina, o che la Cina si sia offerta, in cambio di una riduzione dei dazi, per eliminare un bel po’ di anziani occidentali, riequilibrando il welfare. In un’epoca come la nostra, in cui sono migliorati i processi decisionali e la fiducia nella scienza, si spera che queste bufale restino relegate nel recinto innocuo degli ignoranti che si sfogano con like indignati – ma se davvero l’epidemia dovesse estendersi e aggravarsi, non è escluso che tali fandonie possano condurre ad atti di violenza.

Pur nella distanza tra le due situazioni storiche, alcuni meccanismi universalmente umani si ritrovano identici: prima di tutto, il pendolo psicologico che oscilla tra la negazione del flagello e la sua enfatizzazione, con conseguente panico. È fastidioso ammetterlo, ma il nostro cervello e la nostra psiche non sono come volontà li desidera, né possono evitare che l’emotività disordinata prevalga sulla ragione. «Il povero senno umano cozzava coi fantasmi creati da sé», scrive Manzoni, e aggiunge: «Parlare è talmente più facile che pensare». Pietà e compassione nei confronti dei nostri simili, che è anche pietà per noi. Ma questo non significa non poter giudicare gli errori e le manchevolezze, sia morali che civili; nel proseguire la lotta contro il virus bastardo, ci saranno da registrare anche oggi, come allora, «l’imperfezione degli editti, la trascuranza nell’eseguirli, la destrezza nell’eluderli».

Don Alessandro fa nomi e cognomi, di politici, di popolani, di medici e magistrati. È duro soprattutto con questi ultimi, non nei due capitoli sopraddetti ma nella Storia della colonna infame, che al romanzo avrebbe dovuto essere allegata; è la storia di come i giudici abbiano ottenuto molte confessioni di sedicenti untori mediante la tortura. Ma, ed è la parte più interessante, non sempre le confessioni furono estorte – alcuni infelici si convincevano di essere untori o, nel delirio della malattia, ripetevano incoscienti il gesto dell’ungere di cui avevano piena la testa. La colpa dei magistrati sta nell’averli voluti colpevoli, tortura a parte: per timore, scrive Manzoni, «di mancare a un’aspettativa generale», di sembrare «meno abili, se scoprivano degli innocenti» – i giudici sono portati a «mescere al pubblico il suo vino medesimo, e alle volte quello che gli ha già dato alla testa». Come non riflettere sui rischi analoghi che corrono i magistrati di oggi, e anche i media che talvolta si sostituiscono ai giudici?

Dopo aver visto le sorprendenti analogie, vediamo le grandi differenze. Prima di tutto per l’entità materiale della tragedia: Milano prima della peste contava 250 mila abitanti, dopo la peste 64 mila – significa che era morto il 75% della popolazione, una cifra oggi impensabile. Gli sciacallaggi, le violenze dei monatti, l’imbestiarsi dei rapporti umani avevano assunto tinte cupe e selvagge – oggi siamo civilizzati, globalizzati, informatizzati. Di fronte a una mortalità diecimila volte minore, quel che pare insopportabile è la necessità di cambiare “stile di vita”; vige ormai un’inerzia, nelle nostre abitudini, che fa parere un sacrificio anche rinunciare al cinema, o alla partita di calcio, o all’happy hour e alla festa di compleanno; siamo viziati, abbiamo nascosto sotto i rituali quotidiani le fratture profonde che non vogliamo ammettere.

Poi, certo, c’è l’economia che va male e può peggiorare non si sa ancora quanto: lo spettro della recessione, il turismo al collasso, i negozi e le aziende che rischiano di chiudere. Il cambiamento che cerchiamo di evitare sarà forse coatto, forse dovremo capire che la globalizzazione trionfante ha qualche bug; forse ci sarà una forte spinta alla digitalizzazione della vita intera, forse rinnegheremo Arcelor Mittal ma non Google; finita l’emergenza, tutti si accapiglieranno di nuovo su come cambiare, e lasciare che le cose vadano “naturalmente” sembrerà come sempre la soluzione migliore, in attesa di un altro scossone.

Nel racconto di Manzoni c’è un conflitto interessante tra religione e prudenza sanitaria: i medici sconsigliano gli assembramenti, ma il clero preme per chiedere tutti uniti a Dio (o a san Carlo) di allontanare la peste; perfino il cardinal Federigo, mente illuminata, cede alle insistenze per una solenne processione a piedi scalzi che moltiplicherà il numero dei contagi. Ora la religione è più saggia ma l’economia ha preso il suo posto, sottolineando il conflitto tra lavoro e salute; come se l’economia fosse la nostra nuova religione, e la povertà l’inferno. Si naviga purtroppo a vista, lasciando molto alla responsabilità individuale, come è obbligatorio in democrazia; sarà interessante vedere, nell’evolversi della situazione, come una società dello spettacolo saprà reagire alla privazione degli spettacoli, quanto saprà rinunciare all’intrattenimento e ai fantasmi d’onnipotenza che porta con sé. Chi potrà impedire ai ragazzi di riunirsi nei rave party? O forse loro, i nativi digitali, vinceranno perché il digitale non contagia: riusciremo a tenere a freno la frenesia di mobilità consegnandoci ancora di più all’irrealtà quotidiana, e alle multinazionali che la comandano?