La minacciosa e preoccupante epidemia di Coronavirus è un buon test per riflettere su come si muove l’opinione delle masse al tempo dei social. I social (ancor più dei media tradizionali) hanno contribuito ad aumentare il grado di informazione delle masse, ma al tempo stesso hanno favorito le informazioni più superficiali e moltiplicato le fake news. L’interattività (che i media tradizionali non consentivano) ha generato un falso senso di uguaglianza tra esperti e non esperti, e ha fatto da cassa di risonanza per l’umorismo di gruppo: i commenti su twitter come pasquinate 2.0. L’umorismo difensivo non si è fatto attendere appena comparsa l’epidemia: napoletani che affittano “un cinese c’aa tosse” per saltare le code alla Posta, o lo scatenarsi dell’hashtag #cinecoronavirus (“Il muco selvaggio”, “Infezione da Tiffany” o simili).

In contemporanea su Facebook e Instagram sono comparse immagini francamente razziste o politicamente tendenziose: una presunta cinese che mangia un pipistrello in brodo, il laboratorio da cui per errore sarebbe sfuggito il virus. Ciò ha spinto altri frequentatori di buona volontà a pubblicare notizie di sassaiole mai avvenute contro bambini cinesi o a trattare come razziste precauzioni ragionevoli, o magari leggermente esagerate per partigianeria. L’umore delle masse è molto sensibile ad associazioni emotive irrazionali e incontrollabili (per questo, sia detto en passant, l’attuale imperialismo del termine “emozione” quando si parla di spettacolo mi irrita: almeno un’infarinatura di Brecht, per favore). Tremo al pensiero di cosa accadrà se l’epidemia dovesse espandersi in Africa, dove la presenza di cinesi è altissima e le strutture sanitarie sono assai carenti; se il tema “migranti” e il tema “sicurezza sanitaria” si unissero, se i salvati in mare dai barconi dovessero essere tenuti in quarantena, nella politica italiana si scatenerebbe l’inferno.

In Cina all’inizio le autorità hanno cercato di mettere la sordina su quello che stava accadendo, hanno provato a censurare i social ma ormai perfino là è impossibile: quindi è partita l’autocritica da parte del Potere. Però quella stessa forza dei social, che ha alimentato le proteste democratiche, si è poi resa responsabile dell’allarmismo. È su quest’arma a doppio taglio che vorrei soffermarmi ragionando. Il doppio taglio non vale solo per gli autocrati politici, ma anche per i comuni influencer che vantano milioni di follower su Instagram o TikTok: per accrescere il numero dei seguaci, coi conseguenti benefici economici, gli (o le) influencer sono costretti/e a lisciare l’uditorio per il verso del pelo, in un difficile equilibrio tra il mostrarsi come idoli o l’esibirsi come intrattenitori e buffoni. Devono apparire invidiabili ma anche imbranati, irraggiungibili e a portata di mano: «sono come te ma faccio cose che tu non puoi permetterti di fare, ti regalo un sorriso ma rappresento anche il tuo ideale». Per gli aspiranti leader politici la questione è ancora più delicata, perché è in gioco non solo il loro futuro ma anche quello della compagine civile.

I social funzionano come straordinari procacciatori di consenso sfruttando l’indole gregaria delle masse, ma la nuova disinvoltura (che l’illusione di uguaglianza consente) espone i leader stessi a continui rischi di ridicolo: «se sei come me, allora ti tratto come il mio compagnuccio del bar». Il veleno dei social diventa allo stesso tempo l’antidoto umoristico che smonta l’eccessivo egotismo dei sedicenti “uomini soli al comando”. Per questo gli autocrati di razza, che provengano da democrazie o da democrature, che siano Trump o Putin, odiano i social pur usandoli e sognano social addomesticati.

Quel che vale per la paura, e la politica, vale anche per il desiderio. Il desiderio è il vero tessuto connettivo dei social: che si tratti delle vacanze di lusso postate su Instagram, o della moda trendy, o del make up, o del sesso esplicito, o della semplice voglia di essere notati, l’impulso ad avere ciò che non si ha (a essere ciò che non si è) domina in maggioranza schiacciante gli scambi virtuali di umanità. Anche in quest’ambito, però, funziona l’arma a doppio taglio. I desideri via Internet appaiono più brillanti, mobili, universali e “fighi” di quelli (sempre contrastati e individualistici) che possiamo provare nella realtà; in compenso basta un soffio a farli cadere, basta una concorrenza minima a mostrarli desueti e ridicoli agli occhi stessi di chi credeva di non poterne fare a meno. Come i social fomentano la paura ma insieme la esorcizzano, così lucidano i desideri ma li assottigliano in modo puerile; una realtà che non sia “virtualizzabile” non interessa più. (Un diciannovenne che conosco, a Milano già da un mese, non si è mai recato in piazza Duomo perché «farsi i selfie davanti al Duomo è da sfigati»: l’idea di andarci per vedere il Duomo non gli è nemmeno passata per la testa).

Se il mondo virtuale si sta sostituendo al reale come nel Rinascimento quello razionale si sostituì al magico, allora i desideri virtuali saranno sempre più capaci di umiliare la realtà per poi cadere miseramente di fronte ad essa. Sta crescendo una generazione di neoromantici scettici, turisti dell’esperienza, sempre delusi da un mondo reale che non possono evitare di trattare con ironia?  Quando la realtà bussa forte, l’umorismo vien meno; se (Dio non voglia) il Coronavirus diventasse un’epidemia micidiale in tutto il pianeta, anche sui social la tragedia farebbe piazza pulita di ogni velleità buffonesca; là dove gli autocrati detengono il Potere col pugno di ferro, i blogger vengono messi in galera e stop. Analogamente, la fiera onirica dei desideri avrebbe un brusco risveglio se la tecnologia decidesse di riprendersi quello che è suo e scatenasse una vera guerra, reale, per il controllo e il possesso dell’hardware (per esempio, dei cavi sottomarini). In assenza di una catastrofe, la natura anfibia dei social è bene tenerla presente.