L'editoriale
Storia dell’Asiatica, l’influenza che uccise i giovani
Si crepava parecchio con l’Asiatica, un’influenza feroce che arrivò nel 1957 e che poi si ritirò, tornò a ondate e dopo una lunga immersione ebbe un sobbalzo nel 1969, ribattezzata col nome di Spaziale, visto che la Luna era appena stata conquistata, ma anche influenza di Hong Kong, per dire da dove veniva. Era, quello, un mondo più arcaico che antico e oggi occorrerebbe un documentario in bianco e nero per ricostruire in un grande set quell’atmosfera. Non c’era informazione. Si sapeva però che “quando Mao starnutisce l’Europa si ammala”. Mao, lo dico per i più giovani era il mitico presidente rivoluzionario cinese di cui mezzo mondo era pazzo, tanto che a quei tempi molti andavano in giro fingendo di leggere il suo “libretto rosso” contenente massime indecifrabili o di sconcertante banalità. Si crepava, dunque. Più di ventimila ci lasciarono la pelle con la prima ondata e in otto milioni si misero a letto con febbri altissime.
L’Asiatica sembrava molto esotica. Un tocco di magia, sempre cinese. Tutti i maschi facevano prima o poi battutine del genere: “Sono stato a letto con un’asiatica”, ma era un’amante che – diversamente da questa che imperversa adesso – attaccava e uccideva i giovani perché i più vecchi, sia nel 1957 che più tardi nel 1969, avevano nel loro sistema immunitario anticorpi ereditati dalle influenze precedenti e dalle generazioni precedenti, tutte comunque di origine suina o aviaria (pollame e anatre), tutte sbarcate dalla Cina e da Hong Kong, allora colonia britannica, o dal Sud Est asiatico. Le frontiere erano chiusissime. Nessuno andava in Cina perché prima dell’apertura provocata dal presidente americano Richard Nixon che andò a Pechino nel 1972, dopo aver inviato una squadra di giocatori di ping-pong, si contavano sulla punta delle dita i viaggiatori per la Cina. Io riuscii ad ottenere il visto per essere ammesso a un colloquio preliminare a Roma per andare a Pechino passando per Tirana (l’Albania di Enver Oxa era curiosamente un bastione cinese e gli albanesi di Calabria e Sicilia si sentirono subito maoisti) ma mi fu chiesto di tagliarmi la barba e io rifiutai, niente Cina.
Allora esistevano i medici di famiglia che suonavano alla porta con una curiosa valigetta panciuta e ottocentesca, contenente un grande stetoscopio, il macchinario per prendere la pressione e un bollitore di alluminio in cui sterilizzare siringhe di vetro opaco e aghi d’acciaio che venivano usati più volte e che ti sfondavano la pelle del sedere. I medici sedevano ai piedi del letto e chiacchieravano, prendevano il caffè e poggiavano spesso il cappello sulla coperta, cosa che ha reso infausta quella circostanza: cappello sul letto, uguale medico in casa, uguale morte in agguato. Ancora, si moriva in casa. Oggi muoiono tutti in ospedale. Soli, abbandonati, tiriamo le cuoia al terzo piano e poi veniamo spediti col montacarichi nel seminterrato della morgue per una autopsia all’alba. Li ti aprono col trinciapollo, ti ricuciono con lo spago e torni a casa per le esequie.
Allora, anche quei ventimila morti della vera Asiatica (prima ondata) morirono per lo più in casa. In genere, di polmonite. La polmonite è in genere causata da una bestia che si chiama “pneumococco” contro cui ci si può vaccinare, ma quando arriva quella virale, allora puoi soltanto pregare il tuo Dio o sostituti laici. Anche se gli antibiotici non servivano a nulla contro i virus, a quei tempi i medici erano molto generosi in antibiotici perché si sapeva che dove il virus apre il solco, batteri e bacilli avrebbero festeggiato. E poi, qualcosa bisognerà pur fare. Quell’influenza ammazzava con una percentuale sacrificale inferiore all’uno per cento. Quella che abbiamo adesso fra di noi è una divinità più esosa: esige il tre per cento, forse 3,4. Se sappiamo far di conto, ciò vuol dire che ogni milione contagiati ne pretende 34 mila in vestito d’abete, le borchie sono optional.
L’Asiatica fece otto milioni di contagi e se dovessimo fare i confronti a parità di infettati, quella che gira adesso si porterebbe via un quarto di milione. C’è di buono che nessuno lo sa. C’è di cattivo che nessuno lo sa. Onestamente, nessuno sa molto, con precisione. Però tutti ci aggrappiamo alla storia e – orientalmente parlando – anche alla geografia: io ricordo, tu non c’eri e non sai, noi dovremmo ricordare. La pandemia delle pandemie fu la terrificante febbre detta Spagnola, che dal 1918 si portò via fra i 50 e i 100 milioni di persone nel mondo intero: più che nelle due guerre mondiali messe insieme.
Mia madre, nata nel 1912 se la ricordava benissimo e mi raccontava degli intrugli magici che in ogni famiglia si illudevano di trovare l’antidoto: aglio a tonnellate, peperoncino, bevande bollenti, impiastri, purghe, digiuni, regimi di sola carne, di solo pesce, di solo formaggio, tutti all’aria aperta, tutti blindati al buio di una casa dalle finestre sbarrate. Panico e allegria allo stesso tempo. Dopo la grande Asiatica del 1957 ci fu la Asiatica-2, detta Hong Kong sul finire dei Sessanta, quando ancora la tv era in bianco e nero e tutto era – per poco – nelle venti e più sfumature di grigio.
Non si percepiva l’epidemia e la parola pandemia era ignota. Un motivo c’era. L’uso dell’aereo nell’economia globale. La Spagnola impiegò mesi a diffondersi nel mondo, mentre ai nostri giorni ciò che accade in una lontana provincia cinese è subito in Europa e in America. Le compagnie aeree imbarcano miliardi di virus oltre che passeggeri.
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