Le Ragioni di Israele
Vola la raccolta firme di Venice for Israel-F4F contro chi vuole riportare Goebbels a Venezia
L’iniziativa, che ha già raccolto oltre 3mila adesioni, sbarca anche sul Tg1. Il successo della petizione dimostra che tanti non si piegano alla censura
Venezia ha il triste primato di aver inventato la parola ghetto. Cinque secoli dopo, la città si è trovata davanti a un nuovo bivio: diventare terreno di gioco della propaganda travestita da arte oppure alzare la voce per difendere la verità e la libertà creativa. È con questo spirito che è nata Venice for Israel, iniziativa promossa insieme a Free4Future, per raccogliere firme – già oltre 3mila – per chiedere alla Biennale una presa di posizione netta contro la richiesta di escludere Israele e gli artisti ebrei dalla Mostra del Cinema.
Un appello che puntava a restituire all’arte il suo spazio autentico, impedendo che venga piegata a slogan che predicano odio e cancellazione. Una risposta necessaria, anche perché nello stesso contesto rumoreggia Venezia for Palestine, che prova a usare i simboli della città per diffondere l’ennesima narrazione di delegittimazione di Israele. In poche ore l’appello è giunto fino al Tg1, segno che la questione esiste davvero. La lettera indirizzata al direttore Alberto Barbera e agli altri vertici della Biennale mette al centro l’urgenza di distinguere tra immaginazione e manipolazione, tra creazione e propaganda. L’arte, che è libertà, non può esistere senza verità. La risposta della Mostra è stata ambigua: niente esclusione degli israeliani ma partecipazione emotiva alla denuncia del “massacro di Gaza”.
Negli ultimi mesi si sono visti loghi falsificati e slogan come “dal fiume al mare”, che non lasciano spazio ad ambiguità sull’obiettivo di far sparire uno Stato e un popolo. Il simbolo dell’appello “for Palestine” affianca un leone di San Marco a una mappa senza Israele. Non è né critica né creatività: è il travestimento subdolo di un progetto di eliminazione che ha già segnato il Novecento, da Hitler a Stalin. Tra le menzogne che trovano oggi spazio anche nei linguaggi artistici, una risuona più forte: il cosiddetto “genocidio a Gaza”. È un falso costruito da Hamas, amplificato da reti di propaganda russa e iraniana, che a forza di essere ripetuto si è imposto come verità retorica. Il meccanismo non è nuovo: oltre un secolo fa, sempre in Russia, nacquero i Protocolli dei Savi di Sion, forse la più clamorosa falsificazione antisemita della modernità.
Il mondo dello spettacolo, sensibile alle sirene del politicamente corretto, è esposto a queste manipolazioni. Qui deve risuonare più forte il richiamo a non piegarsi, a non confondere l’attivismo ideologico con creatività, a non scambiare l’arte con l’odio. Nell’appello “for Israel” colpisce questa frase: «Sarebbe una ferita insopportabile se proprio Venezia, la città che ha inventato la parola ghetto, si macchiasse oggi di un secondo triste primato antisemita. Aiutateci a dire: mai più». Le firme raccolte sottolineano la distanza tra cinema conformista e sentimento diffuso.
Rimane forte la domanda posta con semplice radicalità dall’appello: da che parte sta l’arte? Dalla parte della creazione o della cancellazione? Dalla parte della libertà o della menzogna? Venezia, con la sua Biennale, non può sottrarsi a questa scelta. Perché l’arte senza verità è solo propaganda di regime. Non a caso nel 1940 al Lido arrivò Goebbels per assistere a film che – parola del ministro Pavolini – «prefigurano l’Europa cinematografica di domani, dopo la definitiva vittoria dell’Asse».
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